Da Voccoli a Leone, ultimo libro di Pinuccio Stea

19 Febbraio 2009 0 Di Life

Il pensiero dell’autore sullo strappo di Vendola e le prossime provinciali

Pagine di storia inframezzate da lezioni di strategia politica, in una visione ‘dialettica’ che la politica ha ormai bandito. Non tutta la politica, s’intende, solo una parte. Questa l’aria che si respirava durante la presentazione dell’ultima fatica letteraria di Pinuccio Stea, nell’Aula Consiliare della Casa delle Culture di Palagiano. “Taranto da Voccoli a Leone, Ovvero la costruzione della Democrazia Repubblicana (1945 – 1956)”, il testo. Organizzata dall’Associazione politico – culturale L’Arca, la serata ha registrato la presenza, oltre all’autore, di Mario Calzolaro, componente coordinamento provinciale S.D., Mario Guadagnolo, coordinatore provinciale F.I./P.D.L., Franco Gentile, segretario provinciale P.R.C. Coordinatore Antonio Giancane, direttore editoriale di Blustar TV, con Vito Cervellera, consigliere comunale e presidente dell’Arca, padrone di casa.

Tutti concordi nell’attribuire a Stea la sintesi dello storico, non solo per la lucidità con la quale analizza gli avvenimenti, ma anche per la sua obiettività. Lucidità ed obiettività non scontate né usuali, specie se si considera che alcuni periodi trattati dall’autore in fatiche precedenti, lo hanno visto protagonista come dirigente del PCI, fino alla diaspora diessina, oltre ad aver ricoperto ruoli nel Consiglio comunale tarantino e in quello provinciale. “L’amico Stea, ha esordito Giancane, ha seguito le vicende da vicino, e non da dietro le quinte. Perché parlare qui di Taranto? Perché si può capire del modo di fare politica, di rapportarsi con i cittadini”. Calzolaro. “In un’epoca in cui la Costituzione è minacciata quotidianamente, questo nuovo libro di Stea ci fa vedere le radici di quanto poi sarebbe avvenuto, senza mai dare l’impressione di voler suggerire qualcosa di suo, non lasciando trapelare la sua formazione. Lo fa come deve fare uno storico. “Seguo Stea dal suo primo libro, ha poi detto Guadagnolo, e ho visto in lui una evoluzione in positivo, si è allontanato dall’intellettuale politico per avvicinarsi allo storico. Io stesso l’ho usato come fonte per un mio libro. Ha cominciato come uomo di parte, con il suo primo libro su Cannata, ed è andato via via sempre evolvendosi nella sua struttura di storico con la esse maiuscola”. “Leggendo il libro di Stea, è la volta di Gentile, ho provato grande nostalgia nel vedere questa volontà di popolo, questa voglia di partire. La politica è oggi divenuta slogan, invettiva, distruggere l’altro. La cosa che più mi ha colpito, è il grande pathos di quegli anni. Oggi si lavora per escludere e non per includere, mentre prima venivano inclusi anche coloro che erano ad un livello di alfabetizzazione non molto alto”. Amarezza per le vicende interne al suo Partito, il finale. “Nel momento in cui la politica non sa più interrogarsi, ora abbiamo mezze calzette organiche, e se entriamo in un circolo vizioso, ‘perdo il Congresso e faccio un nuovo Partito’, non ne usciamo più. Nel vecchio PCI era proibito mettere la nostra foto sui manifesti, preferivo quella politica al personalismo esasperato”. “Io la domanda la ribalterei, ha detto sorridendo Stea, rispondendo alla domanda di Giancane sul perché gli sia venuto il desiderio di mettersi a scrivere. Come mai un giovane intellettuale di 23 anni, decide di diventare politico a tempo pieno? Questa mia odierna voglia di scrivere è un ritorno alle origini, e fa piacere vedere apprezzato il proprio lavoro. Eliot scriveva che non è mai tardi per diventare quello che avresti potuto essere. Ecco perché in una certa parte della mia vita ho fatto quello che avrei dovuto fare a 23 anni. Il periodo analizzato nel mio libro andrebbe approfondito con forza, anche vedendo quello che sta succedendo in Italia. Mario ha ragione, il mio primo libro aveva più un obiettivo politico che storico”. Al volo, la proposta di spostare la discussione negli studi televisivi di Blustar, mentre Giancane si riserva di parlarne con il suo direttore. Visto l’approssimarsi delle elezioni europee e provinciali, nonché le polemiche su una Costituzione bolscevica, atto ‘consumato’ negli anni che Stea analizza, abbiamo voluto porgli qualche domanda.

Dott. Stea, perché il suo primo libro aveva più un obiettivo politico che storico?

Il libro esce all’inizio del 2005 in piena “era dibelliana”, qualche mese prima della vittoria travolgente contro il candidato del centro-sinistra Vico; non ero convinto che tutto quello che riluceva attorno alla Di Bello fosse effettivamente oro: avvertivo che sotto il tappeto arabescato si celava molta polvere. Di qui il mio tentativo di indicare alla Città un modo diverso di amministrare la cosa pubblica: quello che si era realizzato negli anni della giunta Cannata, dal 1976 al 1983. Un periodo che da più parti viene riconosciuto come tra i migliori della storia amministrativa tarantina. Quanto alla Di Bello, i fatti hanno dato ragione alla “sensazione” che avevo avvertito.

“Se entriamo in un circolo vizioso, ‘perdo il Congresso e faccio un nuovo Partito’, non ne usciamo più”, ha detto Gentile. Giova ricordare che anche Rifondazione, come d’altronde Sinistra Democratica, sono il frutto di Congressi non condivisi. Come anche lo stesso PCI, per non parlare dei Comunisti Italiani e di tutto l’universo socialista. Pensa che le mutazioni genetiche abbiano stabilito una diversa diagnosi alla malattia infantile della sinistra italiana?

Con la formazione del Partito Democratico e la vittoria nelle ultime elezioni della destra, sarebbe stato quasi naturale ricercare la strada per costruire il Partito della Sinistra Italiana, senza altre aggettivazioni. Purtroppo così non è e tanti, me compreso, avvertono un senso profondo di malessere che porta ad isolarsi da una politica e da una sinistra incapace di indicare una prospettiva complessiva per l’Italia ed anche per il mondo colpito da una crisi profonda del capitalismo. L’attuale frammentazione della sinistra italiana, è per me motivo di vera e propria angoscia esistenziale.

Ha accennato, nel suo intervento, alla genesi dell’area industriale, e al ruolo avuto in quell’occasione dagli imprenditori tarantini. Sembra di capire che il “capitalismo straccione” gramsciano trovò a Taranto, in quegli anni, un indiscusso caposaldo.

Sicuramente si: l’analisi gramsciana della borghesia e del capitalismo italiano si attaglia molto bene alla realtà tarantina cosi come si è andata realizzando, dall’insediamento dell’Arsenale Militare in avanti.

Si è parlato di un pathos che non esiste più. Muciaccia e Angelini, “compagni medici”, ogni volta che andavano in provincia per presiedere ad una riunione, prima di avviare i lavori dovevano girare per le case di coloro che avevano un parente malato. PCI, tempio della classe operaia del tempo che fu.

Per scrivere il mio ultimo libro ho incontrato alcuni dei protagonisti delle vicende in esso ricostruite, ed ho avvertito in loro una vera e profonda preoccupazione per una politica che sempre più si presenta come mezzo per realizzare progetti personali, più o meno nobili, e non per affrontare e risolvere i problemi della gente, soprattutto quella più debole ed indifesa. Penso che anche questa sia una causa della crisi dei partiti e della politica più in generale. E proprio per ricordare politici come Ludovico Angelini ed Elio Muciaccia, ho riportato nella premessa del mio libro una bellissima poesia di quegli anni.

Lei era fra quelli che non volevano interrotto il tavolo del confronto per le provinciali. Evidentemente, i fatti lo confermano, sposava una posizione minoritaria nel suo Partito e nell’area della c.d. “Sinistra alternativa”.

Non mi ha mai fatto paura trovarmi in minoranza; ho sempre cercato di dire la mia in autonomia di pensiero. L’ho fatto anche in quest’occasione: l’obiettivo doveva essere quella della ricomposizione unitaria del centro-sinistra, su una base programmatica limpida, partecipando alle primarie e puntando a vincerle. Si è scelto, con qualche passaggio anche bizzarro ed apparentemente estemporaneo, un’altra strada. Una strada che continuo a non condividere e dalla quale, in piena autonomia di pensiero, intendo continuare a tenermi lontano.

Ha citato una frase di Thomas Eliot. Cos’altro avrebbe potuto e voluto essere.

Ho compiuto nei mesi scorsi 60 anni e sono diventato anche nonno di un bel maschietto; la mia vita è stata nel suo complesso varia ed interessante: ho avuto la possibilità di interessarmi di tante cose che hanno arricchito la mia anima. La fase della mia vita, cominciata quando avevo 23 anni, la ritengo sostanzialmente conclusa. La citazione di Eliot mi piace perché è uno stimolo straordinario a percorrere strade nuove, che magari sono quelle non intraprese in passato: la vita è una continua scelta, ed ogni scelta è una rinuncia. Ma quella che ieri è stata una rinuncia può diventare la scelta dell’oggi: la mia non è quindi una considerazione frutto di rimpianti, ma di un rinnovato interesse alla vita ed al futuro. A 23 anni ero un “giovane aspirante intellettuale” che fu chiamato all’impegno pieno nella vita politica; oggi mi sento un “anziano aspirante intellettuale”, che vuol continuare a dare un contributo alla conoscenza ed all’impegno sociale, politico e culturale.

Giuseppe Favale