La vendetta di Obama
9 Febbraio 2013Per parafrasare Dickens (Our Mutual Friend, 1864-65), il titolo forse più giusto per questo post avrebbe dovuto essere “Il nostro comune nemico”. Si ha infatti la sensazione che tanto in Italia quanto in America – ma oramai in tutto il mondo alle prese con la crisi – sia in atto una ricerca ossessiva del capro espiatorio in grado di sottrarre la politica dalle pesanti responsabilità che pendono sul suo capo. La crisi – prima ancora di assumere connotati economico-finanziari – infatti è stata tutta politica e l’analisi più precisa e convincente di tale crisi è possibile farla risalire agli ’70 del Novecento. Per la precisione il 1973, anno in cui James O’Connor diede alle stampe quel che rimane il suo libro più celebre, La crisi dello Stato fiscale (pubblicato in Italia da Einaudi).
L’eventuale lettore del libro non si lasci distrarre dalla dichiarata fede dell’autore nel socialismo o dall’avvertenza posta in prefazione dal curatore, Federico Caffè, dell’edizione italiana: «Anche se il titolo della sua opera è stato strumentalizzato dall’odierno stupefacente neo-manchesterismo, O’Connor è ben esplicito nell’affermare che la via d’uscita dalle presenti difficoltà socio-economiche è costituita dall’alternativa di un’organizzazione basata sul socialismo.»
Quel che qui conta è la minuziosa disamina alla quale O’Connor seppe sottoporre i numerosi vizi emergenti dallo «stato militare-assistenziale quale si è venuto formando negli Usa»; vizi, ma questo l’avremmo scoperto poi, che ponevano in grave stato di sofferenza anche le società del socialismo reale e ne provocarono addirittura l’estinzione.
Ancora oggi non è difficile imbattersi in autori che, sulla falsariga della linea a suo tempo tracciata da Caffè, vogliono illudersi circa le reali distorsioni comportate dall’interventismo statale sugli altrimenti fluidi meccanismi di mercato e sulle conseguenze che esso stesso, lo Stato, è costretto a pagare una volta che sia stato indotto da «apprendisti stregoni [..] a percorrere la strada dell’espansione della spesa pubblica»; il quale, inevitabilmente, «si trova di fronte a una situazione di dissesto.»
Per Caffè, e per molti autori contemporanei, il dissesto dei conti statali non sarebbe affatto dovuto all’espansione della spesa pubblica in sé, ma a un non meglio precisato e mai dimostrato «capitalismo maturo, di cui l’espandersi dello “stato assistenziale” non costituisce una deformazione, ma un’immagine speculare.»
Detto con altre parole, secondo Caffè & C., l’espansione della spesa pubblica sarebbe dovuta all’azione organizzata da diverse lobby in differenti settori dell’economia statale: esistono una lobby militare, una assistenziale, una sanitaria ecc.
Effettivamente, è indubitabile che tali forze agiscano e trovino riparo nel confortevole ambiente creato dallo Stato, grazie alle sue politiche di spesa; ma sarebbe fin troppo facile obiettare che, stante l’assenza completa del mercato e dei meccanismi competitivi da esso promossi, si possa parlare di capitalismo o perfino di «capitalismo maturo». Siamo invece alla presenza di un fenomeno che in altre epoche, correttamente, veniva definito colbertismo e nel quale continua ad apparire difficile individuare un qualsiasi collegamento o rapporto di parentela con i mercati liberi.
Venendo ai giorni nostri, e alla crisi attuale, appare altrettanto indubitabile come essa sia stata innescata dall’amministrazione Clinton e favorita dalla politica di credito facile a favore di chiunque voleva acquistar casa, pur non disponendo dei capitali necessari. La nascita dei derivati, ai quali ora la politica cerca di appioppare la responsabilità della crisi, altro non è stata che la risposta obbligata che il mercato doveva inventarsi per far fronte all’estremo rischio causato dalla politica del credito facile.
Ma veniamo finalmente alle agenzie di rating e al loro modo di operare.
Partiamo dalla loro definizione: esse non fanno altro che “certificare” la solidità, o meno, economico-finanziaria di qualunque emettitore di titoli di credito.
In pratica, se la società X quotata in borsa decide di emettere delle obbligazioni, allo scopo di procurarsi capitale, sono in ultima analisi dette agenzie a decretare se quel capitale servirà per promuovere piani di espansione industriale, oppure a coprire eventuali perdite di esercizio (ricapitalizzazione). Va da sé che la valutazione del rischio sarà variabile a seconda della situazione in cui agisce la società X. Se la nostra società denuncia forti utili di esercizio e il settore in cui opera appare in espansione, il giudizio riguardante i suoi titoli di debito sarà altamente positivo; se viceversa dai libri contabili emergono perdite di esercizio e il settore in cui opera appare in contrazione, il relativo giudizio sui suoi titoli non potrà che essere negativo.
A seconda che il giudizio sui suoi titoli di debito sia positivo o negativo, la società X dovrà riconoscere ai risparmiatori un premio variabile: molto basso in caso di giudizio positivo, estremamente alto in caso contrario. Tra questi due estremi, come è naturale che sia, possono darsi tutta una serie di casi intermedi.
Com’è possibile constatare, le agenzie di rating svolgono un ruolo importante e delicato: dalle loro decisioni possono dipendere tanto le sorti delle società quotate che quelle dei risparmiatori. Ma chi decide quante e quali devono essere le agenzie di rating?
Qui ci imbattiamo in una prima sorpresa. Le agenzie di rating importanti oggi operanti sono solo tre. Il loro numero ristretto però, come sarebbe facile credere, non è dovuto a un meccanismo di selezione avvenuto sui mercati, i quali potrebbero aver lasciato in vita solo le agenzie che nel tempo si sarebbero dimostrate più affidabili nei loro giudizi, ma discende da un potere di vigilanza che gli Stati hanno voluto darsi; questo ovviamente in ossequio al precetto, solo presunto, che nessuno sappia curare l’interesse universale meglio di loro.
In realtà, le “tre sorelle” (Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch) sono tali di numero in quanto la SEC, il regolatore statunitense dei mercati finanziari, ha creato l’NRSRO, cioè l’ente che a sua volta certifica i certificatori e rilascia il “bollino” che consente loro di operare in un “mercato” reso così oligopolistico. A fare il resto ci ha pensato il mercato borsistico americano, che essendo il maggiore per dimensioni ha consentito alle “tre sorelle” di regnare incontrastate sui mercati mondiali.
L’NRSRO però, non pago di aver costruito un caso esemplare di oligopolio, nella sua mania di voler regolare tutto, e convinto di essere onnisciente, ha pure prodotto un esempio di conflitto d’interesse tale da far impallidire quelli nostrani: contrariamente alle leggi di mercato, al buon senso e alla logica, ha stabilito che a pagare la parcella per le analisi condotte dalle agenzie non sia il richiedente (i risparmiatori), bensì le società delle quali dovrebbe certificare lo stato di salute!
Ora. Anche ammettendo che abbia ragione Obama, ammettendo cioè che le agenzie abbiano realmente truccato i pareri riguardanti lo stato di salute delle società operanti prima della crisi nel settore immobiliare, non sarebbe forse da imputare la responsabilità maggiore di quanto accaduto al regolatore statale? A quel che pare, ad Obama, no!
Pur di lasciare intatto l’evidente conflitto d’interesse – che d’ora in avanti, dovesse concretizzarsi il rischio di lasciare in mutande Standard & Poor’s, potrebbe aggravarsi anche per via dell’ulteriore restringimento cui andrebbe incontro il “mercato” delle agenzie di rating (che passerebbe da una condizione di oligopolio al duopolio) – il presidente americano preferisce dare addosso a un’unica agenzia. Guarda caso, la stessa che per prima privò il debito federale del crisma della sicurezza assoluta, nel corso del suo primo mandato!
Mimmo Forleo
Per non rendere prolisso il post ho evitato di menzionare le “indagini”, che hanno portato a un rinvio a giudizio, condotte dalla Procura di Trani sul ruolo giocato dalle agenzie di rating a proposito di valutazione del debito sovrano italico (il debito pubblico, per parlare come mangiamo).
Secondo i valenti magistrati della procura tranese, vi sarebbero concrete possibilità che i pareri emanati dalle agenzie abbiano contribuito ad affossare la credibilità conservata dallo Stato italiano di poter ripagare i propri debiti o, quantomeno (atteso che del pagamento anche di parte di quei debiti non v’è traccia nell’intera storia repubblicana), di riuscire a far fronte al pagamento degli interessi sui quei debiti.
Non saprei dire come abbiano condotto le indagini a Trani, ma è sicuro che non hanno tenuto in alcun conto quanto era possibile reperire sui giornali finanziari. La semplice lettura di qualche giornale, infatti, avrebbe probabilmente convinto i magistrati di quella Procura di stare impegnandosi in una battaglia contro i mulini a vento, di donchisciottesca memoria. Le agenzie di rating, quando si darà “il giorno del giudizio”, avranno gioco facile nel mostrare, a dei magistrati immagino sorpresi di scoprire quanto il mercato sia più scaltro e sagace di loro, che questo da anni ormai anticipa puntualmente, e in alcuni casi di diverse settimane, i pareri di dette agenzie.
La domanda che adesso mi pongo è la seguente: allorquando la Procura di Trani scoprirà questa sorprendente (solo per i suoi magistrati) verità, avrà animo di mettere sotto accusa i mercati finanziari dell’intero pianeta, magari accusandoli di aver ordito un “complotto” ai danni di un paese (l’Italia) altrimenti solidissimo sotto il versante del suo debito?
Per non dire, infine, di come passano il tempo gli europarlamentari (brillantemente sintetizzato da Seminerio con la seguente formula: «qualcosa che oscilla tra una perdita di tempo, uno sfoggio di crassa ignoranza e (soprattutto) l’introduzione del reato d’opinione sul debito sovrano.»).
Casomai i lettori ancora non lo sappiano, forse per distinguersi dai magistrati tranesi, che ai loro occhi devono apparire aridi azzeccagarbugli privi di fantasia, gli europarlamentari stanno pensando di introdurre «uno specifico “reato d’opinione” delle agenzie, nel divieto di formulare conclusioni sulle politiche economiche nazionali e vietando raccomandazioni dirette agli stati sovrani.»
E, per dirla sempre con Seminerio, «qui vien da sorridere, se non ci fosse da piangere.»
Perché? Perché i pareri espressi dalle agenzie sui debiti sovrani, a differenza dei loro giudizi sulle società quotate in borsa, sono gratuiti e non sollecitati da nessuno. In altre parole, sono equiparabili a un articolo o a un commento riportati su un qualsiasi giornale o blog. Ma tutto questo magistrati, politici e associazioni di consumatori, per parafrasare De Gregori, ancora non lo sanno.
Data questa loro ignoranza, non s’accorgono (o forse se ne accorgono benissimo) che ciò equivale a rendere reato penalmente perseguibile ogni opinione espressa, da chicchessia, sullo stato di qualunque debito sovrano.
Insomma, si tratterebbe di un altro bel passo avanti fatto su una strada che conosciamo bene: noi (politici) spendiamo come ci pare e a voi (sudditi) rimane la “soddisfazione” di sentire vostro il debito che accumuliamo. In più, d’ora in poi, non arrischiatevi nemmeno per scherzo a immischiarvi in questa faccenda, se non quando si tratta di pagare, ché vi facciamo provare l’ebrezza dello stare gattabuia!
Mimmo Forleo