Nati per leggere?
8 Aprile 2009Ho avuto, avantieri il piacere di assistere alla presentazione del progetto “Nati per leggere”, in quel di Palagianello.
Dirò subito che ho molto apprezzato la notevole relazione della Dott.ssa Annamaria Moschetti, Presidente dell’Associazione Culturale Pediatri di Puglia e Basilicata, e che molti dubbi, invece, mi ha suscitato quella della Prof.ssa Chiara Gemma, professore associato di Didattica Generale all’Università di Bari.
Prima di dar conto della relazione della Moschetti e delle suggestioni bourdieane (da Pierre Bourdieu, uno dei maggiori sociologi del Novecento) in essa evocate, voglio soffermami un attimo sul dualismo, a mio parere gratuito, che esisterebbe tra una lettura di tipo “apollineo” e una “dionisiaca”. L’apollinea, stando alla relatrice, implicherebbe uno stato d’animo – se così si può dire -, da parte del lettore, nient’affatto “partecipato” o emotivo; la dionisiaca, al contrario, sarebbe la forma di ideale di lettura, un “metodo” di lettura capace di suscitare piacere e, proprio per questo, suscitante quella partecipazione emotiva che manca nella prima.
Ora, a parte il fatto che non saprei immaginare una lettura di tipo apollineo se non in due casi: la lettura del libretto del mio telefonino o quella finalizzata all’apprendimento di qualcosa a scopo di esame, non ritengo neppure vero che ogni qualvolta la lettura si svolge con piacere coinvolga necessariamente la nostra emotività. Certo, se siamo impegnati con una pagina di Proust, ad esempio, è chiaro che saremo presi anche emotivamente; ma, nel caso un cui fossimo alle prese con un saggio di fisica, potremmo forse sostenere di non ricavarne piacere, solo perché non saremmo affatto coinvolti sul piano emotivo? Ho forti dubbi circa la convinzione che le cose vadano in tal modo.
Vado alla relazione della Prof.ssa Moschetti.
Da tale relazione si evince chiaramente, a dispetto del nome attribuito al progetto, che non nasciamo affatto “per leggere”. La passione per la lettura è qualcosa che viene provocata in maniera quasi deterministica: se si danno tutta una serie di concomitanze fortunate (l’ambiente familiare, quello più largo identificabile col contesto sociale di appartenenza della famiglia, un insegnante in grado di trasmettere il suo – eventuale – amore per la lettura, ecc.) allora si avrà un lettore; diversamente, sarà molto improbabile.
Data l’alta aleatorietà che le circostanze di cui sopra si diano, appare di evidente ed estremo merito l’opera promossa dall’associazione dei pediatri. Tanto più se si pensa al fatto che, dati alla mano, le capacità cognitive del bambino risultano essere notevolmente diverse a seconda delle differenti abitudini indotte nel suo comportamento. Un bambino, per fare un esempio, lasciato in balìa di un televisore per molte ore al giorno: mostrerà scarsi livelli di attenzione ogni qualvolta dovrà relazionarsi con altri, avrà serie difficoltà nell’apprendere, presenterà un Q.I. (quoziente intellettivo) di norma inferiore a quello che avrebbe potuto sviluppare.
Dovrebbe essere chiaro che gli sforzi, tesi a promuovere nel bambino le potenzialità sopra elencate, non vanno nella direzione di avere più lettori perché ne tragga vantaggi l’industria del libro: ogni nuovo adepto conquistato alla lettura si traduce in un cittadino in più capace di autodeterminarsi, di partecipare attivamente e in maniera positiva allo sviluppo (anche economico) del contesto comunitario del quale è partecipe.
Giungiamo, quindi, alle evocazioni da me definite “bourdieane”.
Bourdieu, nel suo “La distinzione: critica sociale del gusto”, distingue (sulla scia di Marx e cercando di portare il marxismo “all’altezza dei tempi”, come avrebbe detto Gramsci) tra quattro diversi tipi di capitale: 1) economico (denaro, mezzi di produzione), 2) sociale (reti sociali), 3) culturale (lingue, gusto, stile di vita, ecc.), 4) simbolico (simboli di legittimazione). I quattro tipi di capitale sono convertirtibili uno nell’altro (chi si ritrova quello culturale può tradurlo in denaro, e così via) o, per meglio dire, quasi sempre si “accompagnano” uno con l’altro e danno vita a una sorta di sinergia (più denaro = migliori relazioni = miglior stile di vita = maggiore legittimazione sociale).
Anche Bourdieu, come Marx, individua tre classi principali (alta, media e bassa) ma, a differenza del filosofo tedesco, non le considera fissate una volta per tutte: in ognuna delle tre si possono distinguere, al loro interno, altri tre “gruppi” dotati ognuno di specifiche quantità dei quattro “capitali” detti. Se ciò è vero, e le tabelle demoscopiche allegate al libro dimostrano che è vero, piuttosto che le tre classi canoniche marxiane, avremo tre classi che tendono a sfumare una nell’altra; così, il gruppo alto della classe alta può trovarsi a condividere interessi col gruppo alto di un’altra classe, ecc. Detto altrimenti, la cosiddetta “lotta di classe” non è detto che avvenga attraverso i rigidi schematismi marxiani (dominanti vs. dominati), ma può benissimo comportare alleanze inter-classe aventi il proprio fulcro nella cultura. È la cultura infatti, sulla quale Bourdieu insiste identificandola con l’habitus (una certa visione del mondo), il vero discriminante di classe e ignorarne il ruolo significa condannarsi a non comprendere le dinamiche sociali e storiche.
Non voglio farla lunga, mi limito a suggerire il potenziale scenario che si apre alla politica, ad una politica che abbia voglia e capacità di intervento.
Ma quanti tra i nostri politici sono “lettori”?
Mimmo Forleo