Chiacchiere e distintivi a sinistra

9 Maggio 2010 0 Di Life

Ovvero: come “la battaglia per l’acqua” diventa l’occasione per la riproduzione della “Casta” che, a parole, tutti dicono di voler combattere.

Solo il 7% delle gestioni in Italia sono davvero in mano privata e, dati alla mano, garantiscono minori sprechi e costi migliori per gli utenti. Ma, secondo alcuni, occorre raccogliere firme e impedire che passi il modello che potrebbe far vittime tra i politicanti.

Talvolta, anche in Italia, si dà il caso di qualche giornalista che intende ancora nella maniera giusta il significato da dare a una “inchiesta”: raccolta di dati e notizie, seguita da un ragionamento oggettivo e non inquinato da pregiudizi ideologici.

Per questa ragione, divenuta invero assai rara, consiglio caldamente di andare a leggersi La casta dell’acqua (ed. Nuovi Mondi, 12 euro spesi bene) di Giuseppe Marino.

Secondo Marino, a mettere le mani sull’acqua è stata una casta legata soprattutto alla politica.

«Solo sette gestioni su cento sono davvero affidate ad aziende private oltre la metà parte è rimasto, senza gara d’appalto, a società interamente pubbliche. La parte restante è costituita da società miste in cui il socio privato è spesso rappresentato dalle ex municipalizzate, dunque aziende che non sono estranee, ancora oggi, all’influenza della politica»

La “privatizzazione” dell’acqua, avviata nel 1994 con la “Legge Galli”, ha comportato, è vero, un aumento delle tariffe (+61%) e una riduzione degli investimenti (passati da 2 miliardi a 700 milioni di euro l’anno), ma, aldilà del fatto che si tratta di privatizzazioni fasulle, la tesi del libro è che il dibattito sulla scelta tra gestione pubblica e privata dell’acqua perde di vista il vero problema, l’assenza di regole e parametri che obblighino a una gestione sana dell’oro blu, e la mancanza di un controllore dotato di competenze e poteri di intervento per controllare chi ha in mano gli acquedotti e sanzionare disservizi e storture.

La riforma varata nel ’94 ha diviso l’Italia in 91 zone grosso modo corrispondenti alle province e affidato questo compito agli «Ato», una sorta di mini-parlamentini formati dai rappresentanti dei comuni della zona.

«Altre poltrone per politici locali che costano ai cittadini quasi 50 milioni di euro l’anno e si sono dimostrati incapaci di assolvere ai propri compiti. Nei consigli d’amministrazione delle società che avrebbero il compito di controllare ci sono esponenti della stessa maggioranza che nomina (e domina) gli Ato. E infatti, nonostante i disservizi, raramente dagli Ato arrivano serie contestazioni ai gestori».

In più si moltiplicano i tentativi di inserire nelle tariffe costi impropri, dallo scarico delle acque piovane a contributi per le comunità montane.

E i “controllori” politici?

«Avallano tutto o quasi – accusa Marino – come a Frosinone dove sono stati approvati aumenti retroattivi bocciati poi dal Coviri, la commissione di controllo che pure ha scarsi poteri. E così anche l’acqua è diventata di destra o di sinistra, a seconda della maggioranza che controlla l’Ato e ha piazzato i propri rappresentanti e consiglieri d’amministrazione in decine di poltrone. A volte costose come quelle dell’Arra, la siciliana Agenzia regionale rifiuti e acque alla cui guida è stato nominato il burocrate più pagato d’Italia, che percepisce intorno ai 550mila euro l’anno».

Insomma, il pericolo della privatizzazione dell’acqua agitato a sinistra è assolutamente privo di fondamento.

Il vero problema, semmai, sarebbe quello di eliminare una situazione assurda: i molti comuni italiani che danno in gestione una rete e un servizio ad una società municipalizzata, rendendo inconsistente ogni controllo tra l’ente politico e l’azienda chiamata a erogare il servizio.

Mimmo Forleo