Scannar pecore – seconda parte
7 Giugno 2010Nella prima parte di questo articolo ci siamo occupati dell’evoluzione che hanno subito le aziende agricole e di come essa abbia influito sulle condizioni, peggiorandole, dei lavoratori dell’ambito.
Nulla è stato detto a proposito del perché si sia data tale evoluzione, che sarà argomento della terza ed ultima puntata, ma abbiamo appreso come di fatto abbia estromesso le organizzazioni sindacali e di categoria dal ruolo che dovrebbe competere loro: rappresentare gli interessi dei loro associati.
Tale ruolo è oggi svolto fittiziamente e solo in virtù di strumenti di legge, fortemente voluti dalle organizzazioni stesse, che consentono la sopravvivenza di enti perlopiù inutili e il cui unico scopo è quello di assicurare la sopravvivenza di una moltitudine di colletti bianchi.
Le prime avvisaglie della inutilità di tali enti la si poté percepire allorquando si comprese che i tavoli di concertazione provinciale (che si tenevano nelle Prefetture) per stabilire i livelli salariali dei braccianti, erano diventati del tutto avulsi dalle realtà territoriali e inseguivano (con notevole successo) logiche stabilite per legge e che premiavano unicamente sindacati e organizzazioni.
Già negli anni Ottanta, in presenza di salari reali medi provinciali che si aggiravano intorno alle trenta/trentacinquemila lire al giorno, nei “contratti” stabiliti a tavolino nelle Prefetture si prevedevano remunerazioni dell’ordine di sessanta e anche settantamila lire.
Di tali favolose retribuzioni spesso non avevano notizia né i datori di lavoro e, tantomeno, i lavoratori stessi. E, anche quando ne avevano notizia, mai si sono preoccupati di far corrispondere il salario reale ai parti di fantasia che avvenivano nelle Prefetture.
Come mai allora l’esistenza di questo doppio binario prevedente, da una parte, la corresponsione reale di trentamila lire e, dall’altra, quella virtuale di sessantamila, senza che nessuno si desse pensiero di eliminarne almeno uno?
La ragione è molto semplice. In apparenza, grazie a tale doppio sistema, vivevano tutti felici e contenti.
I braccianti potevano contare, grazie all’esistenza del salario virtuale, su migliori trattamenti pensionistici e su più sostanziose indennità di “disoccupazione” e di “malattia”. Infatti, il calcolo delle retribuzioni pensionistiche e quello delle indennità varie, viene eseguito sulla base di quanto ufficialmente appare in busta paga, non in base a quanto realmente percepito. Inoltre, il bracciante non pagava alcuna trattenuta fiscale su tali retribuzioni, che era totalmente a carico del datore di lavoro.
I datori di lavoro, a loro volta, non davano alcun peso alla faccenda. Gli bastava sapere che nessuno gli avrebbe mai rotto le scatole a proposito della mancata corrispondenza tra salario reale e salario fittizio. E così è sempre stato. Nei pochi casi finiti davanti ai giudici del lavoro, questi hanno sempre tacitamente finto di aver a che fare con singoli episodi di “sfruttamento” a danno di pochi lavoratori.
Sindacati e organizzazioni di categoria (non tutte, a Confagricoltura va riconosciuto il merito di non essersi mai prestata a tali maneggi) facevano la parte del leone.
Occorre infatti sapere che, per legge, a loro spettava un’aliquota percentuale su quello che il datore di lavoro versava sotto forma di contributi previdenziali per il lavoratore. Loro unico interesse, allora, era che la “busta paga” fosse la più alta possibile. Mai si sono preoccupati di verificare che il datore di lavoro versasse per davvero nelle tasche dei dipendenti quanto era scritto in busta paga.
Erano loro i primi a sapere che ciò sarebbe stato impossibile: il dato scritto in busta, e calcolato a tavolino in compagnia del Prefetto, era una pura finzione.
Mimmo Forleo