Relazione “PER LA STORIA DI PALAGIANO”. di Giovanni Carucci.
26 Agosto 2010PER LA STORIA DI PALAGIANO
Ho appreso dalle locandine di questa tavola rotonda che il mio intervento è previsto alla fine della relazione del prof. Caprara. Ragioni di opportunità mi inducono a chiedere al Presidente di poter anticipare almeno la prima parte della mia relazione, sia perché questa è piuttosto lunga sia perché mentre il prof. Caprara è da quasi vent’anni che va ripetendo la sua teoria su questo argomento ed ha avuto anche l’ultima parola a proposito degli interventi apparsi sui locali siti web di Palagianonline e Palagiano.net, io non ho mai tenuto una relazione vera e propria sull’argomento ed ho, comunque, bisogno di chiarire alcune questioni preliminari.
Innanzitutto rivolgo il mio saluto e i miei ringraziamenti al prof. Lorè che ha voluto questa Tavola rotonda perché si discutesse l’importante argomento, il sindaco e il consigliere delegato alla cultura Maria Grazia Mellone, che si sono prodigati per la sua realizzazione e la sua organizzazione e, più di tutti, gli amici e i concittadini che, nonostante la calura di questi giorni, hanno preferito essere qui con noi ansiosi di conoscere qualche cosa in più della nostra storia, anziché cercare refrigerio altrove.
Ho diviso il mio intervento in tre parti: nella I affronto alcune questioni preliminari; nella II confuto le presunte prove della teoria Caprara-Palmisano; nella III presento le prove della mia teoria, quella secondo la quale Palagiano e Palagianello sono sempre state ubicate negli stessi luoghi dove sono oggi.
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I PARTE Questioni preliminari
1) Prima di entrare nel merito dell’argomento, non posso fare a meno di stigmatizzare l’atteggiamento tenuto dall’amico Roberto Caprara nella recente corrispondenza on-line nei confronti degli storici di Palagiano, i quali, probabilmente, gli hanno fatto perdere la calma tanto da indurlo ad infrangere il proposito di discutere l’argomento com’egli dice sine ira et studio ed a trasferire il confronto da un piano scientifico su di un piano di polemica personale.
Detto questo, non starò qui ora a rivoltare il coltello nella piaga e a ripetere le espressioni polemiche abbastanza pesanti usate dal nostro amico nei confronti degli storici di Palagiano.
2) La seconda questione riguarda la comunicazione delle difficoltà che io ho incontrato nella ricerca sulla storia di Palagiano, che forse è utile anche come risposta, sia pure parziale, ad una giusta osservazione del prof. Caprara, quando dice che Palagiano non ha ancora una storia scientifica.
Nel mio saggio su “Origini di Palagiano”, esprimevo il mio sconcerto e la mia delusione per la mancanza di studi specifici sull’argomento e per l’esiguità delle notizie documentarie, che erano talmente poche che ogni tentativo di ricostruzione del nostro passato, specialmente del periodo preso in esame, mi sembrava impresa quasi impossibile.
Nonostante il fatto che il suo territorio avesse restituito e restituisse in continuazione tombe singole, piccole e medie necropoli e una enorme quantità di reperti archeologici, avevo l’impressione di essermi impantanato in una ricerca su un paese sconosciuto, un paese senza storia e senza identità.
Io, comunque, cominciai a lavorare su quello che avevo a disposizione: la storia del più vasto territorio della zona occidentale della provincia di Taranto, la posizione geografica, la toponomastica, i reperti archeologici, le poche notizie documentarie e gli scarni riferimenti storici di alcuni studiosi.
Alla fine mi sentii relativamente soddisfatto per aver fatto un primo passo nella direzione del recupero della nostra memoria storica, e concludevo la premessa esprimendo l’auspicio, che per me era anche un proposito, che l’intera ricerca potesse costituire una base di partenza ed uno stimolo al dibattito e alla continuazione delle ricerche sulla storia di una cittadina che, seppure semplice e modesta, aveva “una sua dignità storica, una sua specificità culturale, un suo patrimonio ambientale e turistico che meritano di essere conosciuti e adeguatamente valorizzati”.
Quando, però, ripresi le ricerche, mi resi subito conto che mi trovavo nella impossibilità di continuare il lavoro. Man mano che andavo avanti scoprivo che gli studiosi, locali e non, spesso attribuivano al territorio e agli abitanti del loro paese o di altri paesi vicini situazioni, luoghi ed eventi svoltisi a Palagiano, oppure ignoravano volutamente alcune fonti utili per la nostra storia col pretesto di non ritenerne credibili i loro autori.
Ho scoperto, ad esempio, 1) che E. Mastrobuono ha ubicato in territorio di Castellaneta, un antico centro demico la cui esistenza è attestata già a partire dal IV sec. A.C. e che, invece, si trovava nel territorio di Palagiano, come dimostro in un mio libro che uscirà a breve per i tipi della Casa Editrice Scorpione di Taranto dal titolo “Il sito archeologico di Calzo e il centro demico di Fane a Palagiano”; 2)…. che diversi storici hanno ubicato altrove, in diversi siti, la Statio ad Canales che, secondo Giuseppe Lugli, l’unico autore che ha studiato il tratto della via Appia antica che ci interessa su basi scientifiche, era ubicata a Palagiano; 3) che sono stati finora ignorati alcuni documenti longobardi in base ai quali, stando alle mie ricerche, dovremmo dedurre qualche piccola notizia che interessa la nostra Palagiano; 4) che a Palagiano nella grava di S. Marco dei Lupini c’era nel V sec. A. C. un santuario dedicato alla dea Demetra; 5) che successivamente quel santuario era divenuto chiesa rupestre, l’unica di Palagiano, dedicata a S. Marco, ma che il prof. Caprara ritiene inesistente o eventualmente ubicata altrove, 6) che è stata ignorata la notizia di una importante battaglia svoltasi nel 1002 subtus Palaiani castrum, riportata da un cronista barese del Seicento, Donato Protonobilissimo, appartenente ad una ricca famiglia feudataria, che aveva avuto un ruolo importante nel territorio di Mottola, Palagiano e Palagianello. Questo autore aveva riportato fatti e vicende che interessarono la città di Mottola e il castrum Palaiani in una brevissma cronaca intitolata “Notabilia de antiquitate civitatis Motule”.
Ma, chi avrebbe potuto scoprire queste ed altre verità su Palagiano se non un campanilista come me? Non certo chi non è campanilista e non è di Palagiano.
Su tutti questi argomenti, infatti, studiosi anche autorevolissimi hanno preferito sorvolare anziché approfondirne l’indagine ed io avrei già potuto scrivere un fiume di parole, ma contrariamente a quello che pensa il mio amico Roberto, non sono abituato a scrivere parole inutili, siano esse poche o fiumi, oppure cose che il giorno dopo potrebbero essere smentite e rivelarsi false o errate. Del resto, la storia intesa come disciplina scientifica, pur non essendo una scienza esatta, io la concepisco come la matematica dei fatti nel senso che questi devono essere dimostrati da tutta una serie di dati (prove) che ne garantiscano la validità e la veridicità.
Ecco allora, perché, per andare avanti nella ricerca, era necessario approfondire le ricerche e lo studio di questi e di altri argomenti nei quali mi sono imbattuto per ricavarne un contesto se non completo almeno coerente e che il tutto si potesse incastonare al giusto posto nell’ambito della storia più ampia della provincia di Taranto e del Mezzogiorno, fatica abbastanza difficile e complessa che comunque io vado facendo ormai da decenni con grande dispendio di tempo, di energie e di sacrifici, ma che ritengo, con buoni risultati.
Nei primi anni Novanta, però, ci è piovuta sulla testa un’altra grossa tegola, una teoria che tenta di toglierci anche le poche certezze che avevamo per il periodo che va dall’XI al XIV secolo, in quanto essa sostiene che tutte le notizie e i documenti precedenti al XIV secolo che parlano di Palagiano, in realtà si riferiscono a Palagianello (Palasciano vecchio) e non all’attuale Palagiano.
I fautori di questa teoria, attraverso la formulazione di un “teorema”, hanno tentato di guadagnarne il consenso da parte del mondo accademico e scientifico allo scopo di ottenerne l’avallo e l’omologazione e così liquidare una volta per tutte la questione. Ma, nonostante la mancanza di teorie organiche diverse, non vi sono ancora riusciti, grazie a quell’ottuso campanilista che si chiama Giovanni Carucci.
Mi riferisco, nello specifico, al “teorema Caprara – Palmisano”. Esso sostiene, in sintesi, che il toponimo di Palagiano sarebbe stato originato in epoca romana imperiale da un tal Pelagius (nome inesistente o comunque mai documentato), presunto proprietario di una villa rustica ubicata a “Parete Pinto” e di un vasto latifondo che sarebbe stato designato come fundus Pelagiani (anche questi mai esistiti e mai documentati). Successivamente la villa sarebbe stata abbandonata e gli abitanti si sarebbero rifugiati e trasferiti nel sito dove ora sorge Palagianello, che all’epoca dei fatti si sarebbe chiamato Palagiano. A questo punto le versioni dei due fautori di questa fantasiosa teoria presentano una variante: per il Palmisano, distrutta la cittadina, insieme a Mottola, dalla compagnia di ventura di Guslendene e Matarazzo (vicenda riportata dal Crassullo, cronista tarantino, sotto l’anno 1358, data che il Palmisano assegna arbitrariamente al 1356, poiché la data del 1358 non era coerente con le sue cosiddette prove, per giustificare tale modifica mischia fatti e personaggi diversi e indipendenti l’uno dall’altro. Tornando alla sua tesi, dunque, distrutta Palagiano nel 1356 (altro fatto inventato di sana pianta dal Palmisano il quale aggiunge, senza alcuna prova in quanto nessun documento e nessun autore ne parla, che dalla stessa compagnia sarebbe stata distrutta anche Palagiano) gli abitanti avrebbero abbandonato anche questo sito e si sarebbero spostati nella pianura dove, verso la fine del XIV secolo, avrebbero fondato una nuova Palagiano.
Il prof. Caprara, invece, sostiene che Palagiano già dopo la crisi del III secolo era stata abbandonata dai suoi abitanti perché si era impaludata in conseguenza dell’ innalzamento della falda marina e nel 1324 era ancora deserta (quando il clero greco della nuova Palagiano pagava le decime alla Chiesa e quando a Palagiano c’era una chiesa di S. Donato). Solo in seguito (egli parla genericamente del XIV secolo) quando la falda dell’acqua del mare tornò ad abbassarsi gli abitanti di Palagianello si sarebbero trasferiti (in massa?) nuovamente nella pianura, così il vecchio sito si sarebbe chiamato dapprima Palasciano Vecchio e, in un secondo tempo, Palagianello, mentre il nuovo insediamento avrebbe preso il nome di Palagiano dal toponimo del sito di provenienza. Ma, haimè, anche qui ci troviamo di fronte ad una tesi contradditoria, indimostrata e non suffragata da alcun documento, una tesi che il prof. Caprara tenta di far passare come una verità assiomatica. In proposito ho il dovere di rilevare che è molto facile sostenere il verificarsi di fenomeni a comando e a proprio piacimento come il presunto innalzamento e l’altrettanto presunto abbassamento della falda quando fa più comodo alla propria teoria senza uno straccio di prova o di testimonianza storica o letteraria. Inoltre, due interrogativi mi vengono in mente ai quali non riesco a dare una risposta convincente: i1 I° – “Com’ è potuto accadere che Taranto, città che si elevava solo pochissimi metri sul livello del mare non si impaludò a causa dell’innalzamento della falda, mentre Palagiano che ancora oggi si trova a 36 metri sul livello del mare si impaludò?”; il II° – “Com’è possibile che tutti gli abitanti di un paese, ciascuno dei quali aveva ormai una casa e piccoli o medi appezzamenti di terreni, abbiano potuto abbandonare, nel XIV secolo, contemporaneamente il loro paese con tutti i loro beni mobili e immobili portandosi via persino il toponimo, ormai radicato da secoli nel contesto storico-geografico, decretando che da quel momento il sito che avrebbero lasciato non si doveva più chiamare Palagiano, per il solo fatto che la falda si sarebbe nuovamente abbassata e l’acqua si sarebbe ritirata dalla pianura?. Io chiedo scusa al mio dotto amico, ma non posso fare a meno di esprimere il mio dissenso più convinto nei confronti di una teoria che a me, tutto sommato, appare abbastanza “ingenua”.
Fin qui la parte di relazione che mi è stato consentito di esporre nel corso della strana tavola rotonda nella quale sono stati imposti a sorpresa limiti di tempo talmente ristretti che non potevano consentire un dibattito chiaro, sereno ed esauriente su un tema così complesso qual era il nostro: “Per la storia di Palagiano”. Ho voluto ripeterne il titolo per ricordare a me stesso e a tutti che il tema principale da trattare non era quello delle diverse teorie sulle origini di Palagiano, ma quello delle modalità e delle procedure da seguire per fare storia in generale e la storia di Palagiano in particolare. L’ argomento richiedeva che fossero sviscerati aspetti che pure, io, avevo preparato e che avrebbero certamente offerto maggiore chiarezza al dibattito. Tutto ciò, nonostante avessi fatto presente più volte a chi ha presieduto la tavola rotonda l’esigenza che mi fosse consentito di parlare liberamente. Se si tiene presente che per discutere ogni presupposto non sottoposto ad alcun vaglio di tipo scientifico per giustificarli da chi li propone (e sono almeno cinque) che sta alla base della teoria Caprara- Palmisano ci sarebbe voluto almeno un quarto d’ora per ciascuno, cioè complessivamente un’ora e mezza, senza contare il tempo occorrente per mostrare le mie prove che pure alla fine sono riuscito a presentare anche se in modo alquanto raffazzonato e confuso, si capisce bene che in soli 15 minuti non era possibile sintetizzare tutte le argomentazioni necessarie (tutte una più complessa dell’altra) per “falsificare” presupposti e prove di quella teoria.
Per fare un po’ di chiarezza, quindi, allego anche la parte della relazione che la sera del 17 u. s. non mi è stato possibile esporre, riprendendo dal punto in cui fui interrotto a causa dello scadere dei preziosi primi 15 minuti concessomi.
3) Fatta questa doverosa e necessaria premessa (mi riferisco alla prima parte della relazione), ritengo indispensabile qualche riflessione in ordine ad alcune questioni teoriche e di metodologia scientifica.
Innanzitutto, però, consentitemi di ribadire, nonostante gli attacchi personali ricevuti, i sentimenti di stima e di amicizia che mi legano al prof. Caprara, che considero come un fratello maggiore, per le sue doti di uomo e di studioso, grazie alle quali egli ha conquistato l’autorevolezza che tutti gli riconosciamo.
Tuttavia, ciò non significa che si debba essere sempre d’accordo con lui e con le sue tesi anche quando queste non sono supportate da dimostrazioni e prove scientificamente ineccepibili. Devo aggiungere, poi, che se egli, come dice, è disponibile a discutere dell’argomento sine ira et studio come diceva Tacito e accetta la dialettica scientifica, cosa che comunque è parte necessaria dell’attività di ricerca storica, non può sentirsi offeso nella sua onestà scientifica, che peraltro nessuno di noi si permetterebbe di mettere in dubbio, se Luigi Putignano sostiene che la sua affermazione, secondo cui il clero greco di Palagiano sarebbe arroccato nell’insediamento rupestre di Palagianello, non ha alcun supporto documentario o se io definisco “teorema” la teoria sua e del compianto R. Palmisano. Se dovessimo accettare questo appunto del prof. Caprara, noi per timore di offenderlo ci dovremmo astenere dall’esprimere il nostro parere e dall’ esporre le nostre argomentazioni; ma in questo modo non ci sarebbero più né dialogo né confronti e questo sarebbe profondamente antiscientifico oltre che ingiusto e antidemocatico. Ma, tornando alla questione della mancanza di prove accennata da L. Putignano, è notorio che per il prof. Caprara il clero greco che egli ubica nel 1324 a Palagianello (ma che il testo precisa senza alcuna possibilità di equivoci essere di Palagiano) è quello citato dal Vendola nelle Rationes Decimarum, ma, mentre per lui questa è una “prova” a suo favore, per L. Putignano e per me non lo è affatto, come non lo sono le altre affermazioni addotte a sostegno della sua teoria.
Ecco perché insisto nel definire “teorema” la teoria Caprara-Palamisano; perchè, per me, essa non è supportata da adeguate prove scientifiche, sia che si tratti di percorsi logici, sia che si tratti di documenti.
Allora il problema non è un problema di ottuso campanilismo, ma è semplicemente quello di chiarire che cosa si debba intendere per “prova”, che cosa si debba intendere per dimostrazione e che cosa per documento nel contesto di una dimostrazione scientifica a proposito di una teoria o di un assunto storico e il prof. Caprara mi perdonerà se questi concetti, che per lui sono solo bizantinismi, per me sono le argomentazioni preliminari indispensabili da porre a base di ogni discorso che voglia assurgere al rango di discorso scientifico. Quindi se non ci mettiamo d’accordo su questi concetti non troveremo mai una soluzione concorde né su questa né su altre questioni dello stesso tipo e rimarremo legittimamente, magari anche ottusamente, ciascuno sulle proprie posizioni.
Ora, nell’accezione che a noi interessa, credo che per “prova” si debba intendere un atto o una serie di atti capaci di “dimostrare” la veridicità di uno o più fatti storici. La prova, quindi, per essere scientifica deve essere dimostrativa e, per essere tale, deve avere almeno due caratteristiche: 1) quella dell’oggettività 2) e quella della positività; una prova cioè deve essere valida non solo per me, ma per tutti, e non solo in questo momento, ma per sempre. Quindi, il concetto di prova, per me, esclude la possibilità che essa possa essere smentita, neanche tra 3.500 anni, altrimenti non è una “prova”. Se così è, le dimostrazioni fatte attraverso valutazioni soggettive e/o negative sono solo dei sofismi, validi per giustificare tutto e il contrario di tutto.
Tornando ora alla dicitura riportata nelle Rationes decimarum, che il prof. Caprara ritiene essere una “prova” a favore della sua teoria, io sostengo che essa è si una prova, ma è una prova a favore della mia teoria, semplicemente perché fino a prova contraria si parla del clero greco di Palagiano e non di quello di Palagianello.
Lo stesso discorso vale per il documento rinvenuto dall’avv. Mastrangelo che parla della chiesa di S. Donato di Palagiano esistente sin dallo stesso anno 1324.
Queste prove, a favore della mia tesi hanno le dette due caratteristiche in quanto ci informano di fatti oggettivi (veri per tutti) e positivi in quanto si tratta di notizie nuove e non di una mancanza di notizie, criterio al quale spesso ricorre il prof Caprara per “dimostrare” i suoi assunti, e a me sembra veramente assurdo pretendere che questa possa essere rivendicata come prova a favore della sua tesi.
Per dimostrazione io credo si debba intendere, poi, il procedimento logico, che utilizza criteri come quello del rapporto causa-effetto, quello della sequenzialità temporale, quello ad esempio del sillogismo di aristotelica memoria per citarne solo alcuni, un procedimento attraverso il quale i dati e le informazioni diventano “prove” vere e proprie.
Ora, pur senza scomodare la moderna epistemologia, non posso fare a meno di richiamarmi ad un altro criterio o meglio ad una procedura metodologica per testare la maggiore o minore validità e veridicità delle diverse ipotesi in ambito scientifico.
Mi riferisco alla procedura della cosiddetta “falfisicazione” teorizzata da Karl Popper. Questa procedura consiste nel fare tutti i possibili tentativi per falsificare le varie ipotesi (cioè per evidenziarne la falsità). Gli esiti di questa procedura possono essere i seguenti: a) Se l’ipotesi resiste ai diversi tentativi di falsificazione e viene convalidata dalle cosiddette “prove”, essa si può considerare esatta e dà luogo ad una verità scientifica; b) Se, invece, resiste ai tentativi di falsificazione ma non viene convalidata da prove adeguate, l’ipotesi rimane in piedi, ma sempre come ipotesi di lavoro, in attesa di future conferme o smentite e, quindi non ha valore scientifico; c) Se, infine, non resiste ai tentativi di falsificazione, cade definitivamente e, perciò, devono essere formulate nuove ipotesi.
Sottoponendo quindi le nostre rispettive teorie e ipotesi alla detta procedura della “falsificazione” avremo i risultati finali.
Inoltre, voglio richiamare un altro criterio di carattere metodologico, del quale ho già parlato nella mia risposta alla lettera aperta prima menzionata, che riguarda quella che nel linguaggio giuridico si chiama “onere della prova”. Si tratta di un criterio inderogabile, voluto dalla logica e dalla prassi e consolidato sul piano della metodologia storica, un criterio normativo previsto a pena di nullità nell’ambito giuridico: nelle situazioni di questo tipo, è chi contesta una situazione di certezza preesistente e la vuole sostituire con una nuova a dover “dimostrare” la validità della propria tesi e a fornirne le prove.
A questo proposito, parto da una considerazione molto semplice: “Se a nessuno fino al 1980 è mai venuto in mente di dubitare e contestare la teoria tradizionale su Palagiano e Palagianello, è perché questo, in virtù dei tanti documenti e delle tante prove esistenti, è o era per tutti un assioma, cioè una verità di per sé così evidente da non potersi assolutamente mettere in dubbio. Ciò è acclarato anche da storici insigni, come P.P. Coco e P. Adiuto Stefano Putignani.
Invece il prof. Caprara trasforma in assiomi i presupposti della sua teoria, che in realtà sono solo delle affermazioni soggettive nient’affatto scontate ed evidenti e, a me che sollevavo queste questioni, invece di dare risposte sul punto, rispondeva sbrigativamente bollando le mie critiche come “bizantinismi”.
Ma il prof. Caprara non è un ricercatore qualsiasi, egli è uno studioso molto autorevole e non è certo facile avere udienza e attenzione se lo si contraddice. Confesso che è proprio questa sua autorevolezza, che in qualche modo intimidisce i suoi interlocutori, che mi ha indotto a differire la pubblicazione di un libro su questa questione: se lo avessi fatto subito negli anni Novanta, probabilmente, non mi avrebbe né ascoltato né creduto nessuno. Allora ho preferito incassare in silenzio per anni le accuse di campanilismo, pubblicando altri saggi scientifici per costruirmi una credibilità che penso di avere raggiunto, anche se ancora in modo parziale.
Ora, tornando al nostro discorso, il prof. Caprara mi rimprovera indirettamente di avere tenuto nascosto qualche documento. In realtà il documento a cui si riferisce è quello del 1050 a cui ho fatto riferimento nell’intervento del 21 gennaio scorso. Purtroppo, penso che lo deluderò ancora una volta in quanto questo documento l’avevo rinvenuto solo poco tempo prima della conferenza del 21 gennaio scorso e, comunque, non l’ho mai considerato la mia prova regina, per usare una sua espressione. In ogni caso, dopo il suo intervento, lo mostrerò a tutti insieme ad altri documenti.
Ma un altro impegno era stato assunto dal prof. Caprara in sede di corrispondenza on-line: egli dichiarò che sarebbe stato disposto a rivedere la sua teoria solo se gli avessi mostrato qualche reperto archeologico di epoca medievale ed in particolare del periodo compreso tra il V-VI secolo e il XIII, rinvenuto a Palagiano.
Ed io, dopo aver insistito per avere una qualche risposta in ordine ai due interrogativi o delle indicazioni bibliografiche sui presunti fenomeni dell’impaludamento e del ritiro delle acque dalla palude derivanti dall’abbassamento e dall’innalzamento della falda senza averne risposte, ho mostrato sia i reperti, due dei quali del XIII secolo ed un altro sicuramente medievale e forse di un periodo ancora precedente sia, soprattutto, il famoso documento del 1050, un testamento di un cittadino francese che lasciava, tra gli altri beni, ad una istituzione religiosa dedicata al Santo Sepolcro di Aquaviva, un centro abitato ubicato nel territorio dell’allora contea di Carcassonne, un terreno che si trovava tra Palaianum, Palaianellum ed un altro paese.
Già questo documento, da solo, dimostra l’esattezza della mia teoria e la inesattezza della teoria Caprara-Palmisano, in quanto se già nel 1050 esistevano i due toponimi di Palaianum e Palaianellum che designavano due territori diversi in Francia, appare con ogni evidenza che detti toponimi erano stati mutuati da quelli delle nostre Palagiano e Palagianello (che sin d’allora erano due paesi diversi ubicati ciascuno nello stesso sito dove si trova oggi) ed erano stati attribuiti a due territori, probabilmente con caratteristiche simili, della ex contea di Carcassonne in Francia.
Tanto per doverosa informazione.
Un caro saluto
Giovanni Carucci