Problemi drammatici? Sì, ma con l’italiano
18 Dicembre 2011“Vogliono obbligare gli stati ad introdurre – nella Costituzione addirittura! – quello che si chiama il ‘pareggio di bilancio’, cioè l’obbligo ogni anno di pareggiare il bilancio, che è una cosa assolutamente drammatica.”
Questo è un passaggio estrapolato dal comizio, tenutosi Domenica scorsa, di Rifondazione Comunista, oratore Tito Anzolin. Ora, a parte il fatto che resta da spiegare perché, secondo Anzolin, il pareggio di bilancio sia “una cosa assolutamente drammatica”, la cosa che lascia di stucco è un’altra. In effetti, in Parlamento è stato presentato un disegno di legge costituzionale recante per titolo “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”, ma non è affatto vero che attraverso quel disegno di legge si stia introducendo il pareggio di bilancio nella Carta costituzionale.
Per rendersi conto di come a sostenere il falso siano in due, Anzolin e il Parlamento, è sufficiente andare a leggersi il disegno di legge in questione. Al di là del titolo, considerato buono dai politici italiani per calmare i mercati, che non essendo cretini non abboccheranno, dopo averne letto il testo si scopre che di pareggio di bilancio non v’è alcuna traccia, essendo stato sostituito dal più comodo “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio di bilancio”.
Anche possedendo una conoscenza approssimativa della lingua italiana, dovrebbe venire spontaneo chiedersi se i termini “pareggio” ed “equilibrio” siano equivalenti. Non lo sono.
In più, checché ne dica Anzolin, che in un successivo passaggio si dilunga sulla lungimiranza con cui i nostri Padri costituenti blindarono la Costituzione, vi è il fatto che furono proprio i costituenti a prevedere il pareggio di bilancio, nel quarto comma dell’art. 81 della Costituzione!
Vediamo cosa recita quel comma: “Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”. Quel comma segue il terzo, “Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese”. È dunque chiaro che la Costituzione prevedeva già in origine e continuerebbe a prevedere ancora adesso una sorta di pareggio di bilancio. Qualcosa cioè in cui ogni spesa trovi un preciso corrispondente dal lato delle entrate.
Perché ho aggiunto “continuerebbe”? Perché, nel 1966, intervenne una sentenza della Corte costituzionale in cui si affermava che la politica di spesa “deve essere contrassegnata non già dall’automatico pareggio del bilancio, ma dal tendenziale conseguimento dell’equilibrio tra entrate e spese”. Quindi, in piena coerenza col detto “fatta la legge, trovato l’inganno”, a partire da quella data, anche in Italia poté avere inizio la sbornia keynesiana che ci ha condotti dove siamo: debito pubblico al 120% del PIL e fiscalità che assorbe il 54% del reddito annuale (non fatevi ingannare da chi parla di 43-44%; come ho già spiegato in passato, quel dato tiene conto anche del cosiddetto “sommerso” che, proprio perché è sommerso, non paga le tasse).
Vale la pena di far notare che l’attuale disegno di legge sposa alla lettera l’interpretazione dell’art. 81 datane dalla Corte costituzionale nel 1966 e lo modifica introducendo il seguente comma, “Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”. Non si capisce, allora, cosa mai sia andato a leggere Anzolin – che si dice preoccupato per le possibili ricadute a danno dei lavoratori derivanti dalla mancata possibilità di indebitarsi ulteriormente, quando gli effetti del ciclo economico potrebbero essere negativi – scambiandolo per il disegno di legge.
Smascherata questa bugia, resta da dire ancora qualcosa a proposito di un altro passaggio che è possibile rinvenire tra le cose dette da Anzolin: “anche gli stati prendono i prestiti […], da restituire in un certo numero di anni”.
Sospettavamo da tempo che Anzolin vivesse ormai in un mondo tutto suo, adesso ne abbiamo le prove. Solo nel suo universo parallelo, probabilmente, esistono stati che restituiscono i debiti contratti; nel nostro, ahimè, non accade mai. Proviamo a spiegarla per bene questa cosa, a chi sarà sicuramente esperto in politiche economiche aliene, ma mostra gravi disagi quando gli tocca calarsi in quelle che si praticano sul pianeta Terra.
Prendiamo l’Italia, il paese del globo terrestre in cui viene a tenere i comizi Anzolin. Sappiamo che il suo debito è pari a circa 1.900 miliardi di €. Quel debito non è stato contratto l’altro giorno dal governo, magari ripromettendosi di restituirlo in un certo numero di anni, come ingenuamente crede Anzolin. Quel debito è nato nel lontano 1861 e non ha mai smesso di crescere. (Qui, se Anzolin vuole, può dilettarsi a seguirne lo sviluppo dal 1970 in poi.) Questo significa che lo Stato italiano non ha mai restituito un solo centesimo dei debiti contratti, ha semmai sostituito i vecchi debiti in scadenza con nuovi debiti, di importo via via crescenti.
Tito, nel suo comizio, volendo spiegare perché il pareggio di bilancio sarebbe drammatico, ha osato paragonare lo Stato a una famiglia parsimoniosa alla quale, in un momento di bisogno, magari dovuto a una disgrazia, si vuole impedire di accedere a un prestito. È notizia dell’altro ieri che i barbieri del Parlamento guadagnano qualcosa come 9.000 € al mese. Se neppure questa notizia fa desistere Tito dal considerare lo Stato parsimonioso, le conclusioni possono essere solo due: 1) sul pianeta da cui Tito proviene si ha un diverso concetto della parsimonia, 2) Tito, quando va dal barbiere, non bada a quanto spende.
Mimmo Forleo