UN GIORNO PER LA STORIA. Le elezioni presidenziali americane
5 Novembre 2008Da alcuni giorni sulla Cnn campeggia un riquadro con il conto alla rovescia delle elezioni. Minuto dopo minuto, si assottiglia sempre di più lo spazio di tempo che separa dalla chiusura dei seggi elettorali, ed ormai non restano che poche ore. In un clima di crescente attesa, è sin troppo facile parlare di questo come di un giorno storico: tra alcune ore, l’America dovrebbe avere il suo primo presidente nero: Barak Obama, 47 anni, democratico.
E’ un giorno storico, certo: ma che storia sarà?
Partiamo da una prima considerazione. Tutti i sondaggi attribuiscono al candidato democratico un sicuro margine di vantaggio, e quindi – salvo amare sorprese all’ultimo minuto – l’esito delle elezioni dovrebbe essere scontato. Ci sono però un paio di incognite. Innanzitutto, i sondaggi non sono una scienza esatta e spesso i numeri finiscono con l’essere contraddetti dal voto reale. E poi c’è la questione razziale: alcuni settori della società americana sono fortemente razzisti. Quanto peserà, allora, il colore della pelle di Obama nelle urne?
Infatti, già dalle primarie gli analisti elettorali hanno indicato come punto debole per il candidato democratico quella che viene definita la rust belt, la “cintura della ruggine”: un vasto territorio nel nord degli Stati Uniti, sotto i Grandi Laghi, che si estende da est, fino al mid-west. Quella zona un tempo era il cuore pulsante dell’industria pesante americana – acciaierie, miniere, industria automobilistica – e rappresentava un bacino elettorale straordinario per il partito democratico proprio per la presenza massiccia della working-class. Bianca. E spesso razzista. E’ questo il motivo per cui uno stato come la Pennsylvania – nonostante sia da decenni roccaforte democratica e dei sindacati – ha turbato il sonno degli strateghi democratici fino alla fine. Lo sforzo organizzativo per superare la barriera razziale è stato straordinario, con una mobilitazione di volontari senza precedenti. Ora, i sondaggi smentiscono le previsioni fosche dell’inizio. Aspettiamo di vedere cosa diranno le urne.
Un altro fatto importante di queste elezioni è che Obama ha riacceso un’intensa passione tra gli elettori americani, creando un grande coinvolgimento. Uomini, donne, giovani e anziani, neri: i bagni di folla sono stati costanti, impressionanti, scanditi dalle parole d’ordine della campagna elettorale – il cambiamento, la speranza, e il famoso “Yes, we can“.
Lungo il percorso, tuttavia, il linguaggio è cambiato notevolmente, e le innovazioni travolgenti dell’inizio hanno lasciato il passo, alla fine, ai temi tradizionali del partito democratico e della politica americana. Del resto, le campagne elettorali negli Stati Uniti sono lunghissime: dall’inizio della corsa per le primarie sono ormai trascorsi quasi due anni, e di acqua sotto i ponti ne è passata veramente tanta.
E’ questo il motivo per cui secondo me sarebbe meglio non farsi troppe illusioni.
Se Obama dovesse vincere, buona parte del suo programma non sarà attuabile. Il suo piano fiscale, soprattutto per la parte riguardante la tassazione delle imprese, potrebbe avere degli effetti disastrosi su un’economia che nei prossimi mesi sarà sempre di più in difficoltà. Sul piano internazionale, poi, io aspetterei per poter giudicare se sarà un leader capace di gestire le relazioni internazionali in un contesto che si va facendo sempre più ingarbugliato.
L’esperienza di Lyndon Johnson negli anni Sessanta, e di Carter alla fine degli anni Settanta, in fin dei conti, dovrebbero averci insegnato qualcosa: al di là delle speranze e delle attese, che cosa rimase della “lotta alla povertà” del primo, e della nuova stagione di “cooperazione internazionale” e dei “diritti umani” del secondo?
Quello di oggi rimane un giorno storico. Solo, dovremo aspettare anni per sapere che storia sarà.
Giuseppe Piccoli