Belle serate, ovvero: una definizione della cultura
19 Agosto 2010Così come preannunciato da Donato, mi accingo a proporre degli spunti di riflessione e qualche suggerimento a proposito di un tema salito alla ribalta delle cronache locali: la cultura.
La buona riuscita della messa in scena di un capolavoro di Eduardo capita, come si usa dire, “a fagiuolo” consentendo, senza tema di essere smentiti, di avviare un discorso intorno alla possibilità che si diano eventi di successo la cui portata culturale sia immediatamente riconoscibile da chiunque; infischiandosene sia delle differenze di ceto che culturali presenti nel pubblico.
Permette, in altre parole, di affrontare dal lato più ostile l’argomento cultura: quello concernente l’universalità del suo significato. Interrogandosi intorno all’universalità della cultura, infatti, può accadere, non disponendo di un punto fermo da cui far partire la discussione, di impantanarsi ben presto in dei non sense del tipo: tutto è cultura, niente è cultura. L’ultimo articolo del Sindaco mi pare esemplare per comprendere cosa qui si vuol dire.
Volendo, la soluzione alla quale giungeremo, può costituire risposta utile anche a quanti fino all’altro ieri si interrogavano a vuoto sulla questione: cos’è la cultura?
Partiamo da una constatazione: i ragazzi della “Compagnia di San Nicola” qualche sera fa hanno dato prova di quanto il lavoro fatto per bene alla fine ripaghi. Si sentiva ripagato il pubblico, lo erano le ragazze e i ragazzi che avvertivano di non aver deluso nessuno dei presenti.
Ma cos’è il “lavoro fatto per bene”?
Be’, è quel tipo di lavoro che richiede costanza di applicazione nello studio quanto nell’esercizio e che rifugge le improvvisazioni dell’ultim’ora. Le improvvisazioni, cioè, sulle quali si adagiano i dilettanti dell’“Io ce l’ho messa tutta”. Ma cosa ci hai “messo”, se a chiunque viene facile ribattere con un “Sarebbe stato lo stesso se non ti fossi impegnato affatto”?
Per quanto possa apparire strano, almeno a quanti ci governano, sono già numerose le esperienze maturate da giovani e meno giovani di Palagiano e delle quali si può dire: “Ecco, quello mi sembra un lavoro fatto per bene.” Le riscontriamo in campo musicale, teatrale, letterario e, piacevolissima novità, anche nel campo della promozione enogastronomica.
Vi è un elemento comune a tutte queste esperienze che sarebbe grave non sottolineare o lasciarsi sfuggire: nessuna di esse si pone come intento primario quello “pedagogico”, alla base di tutte vi è la voglia di impegnarsi a lungo e con passione nell’arte di coltivare un interesse. Nessuna volontà di “educare il popolo”, solo la voglia di fare qualcosa che ci dona piacere quando la facciamo e che ne provoca altrettanto in chi è spettatore.
È questo da sempre il segreto della cultura e del fare cultura: provocare piacere ricavandone.
Col tempo, dopo lungo studio e lunghissimo esercizio, i protagonisti di un movimento culturale imparano a guardarsi intorno, cominciano a provare curiosità verso esperienze simili alle loro e fatte da altri che magari vivono a migliaia di chilometri di distanza. Affinano i loro strumenti espressivi e quelli ricettivi del pubblico che negli anni, seguendoli, è come se avesse studiato insieme a loro.
Quando questo accade, la cultura raggiunge quel grado di sublimazione che rende possibile parlare di “vette culturali” da guadagnare e di “frontiere culturali” da abbattere. Ma, come tutte le cose, non giunge gratuitamente o, peggio ancora, sotto forma di editto fatto passare per “proposta” da chi si ritrova a gestire qualche pubblico potere.
Oggi, a differenza di un passato anche recente, dovrebbe essere molto più facile a Palagiano promuovere la cultura. Basterebbe saper guardare a ciò che si muove spontaneamente e che è frutto della passione di tanti che interpretano la cultura come qualcosa a cui vale la pena di dedicarsi per il piacere che è in grado di suscitare.
Purtroppo, continuando lungo la china intrapresa da qualche anno a questa parte, quel dedicarsi da parte di tanti alla cultura corre il serio rischio di trasformarsi in un vero e proprio immolarsi ad essa. È questo il senso di frustrazione che dovrebbe preoccupare quanti dicono di voler amministrare nell’interesse del paese, non quello espresso da chi intende la cultura come qualcosa da far piovere addosso ad una comunità composta da analfabeti.
L’aspetto che mi ha particolarmente mortificato – in una vicenda che di spunti per mortificarsi ne ha offerti tanti, a cominciare dai toni talvolta miserabili che ha saputo assumere – è stata l’incapacità mostrata da alcuni di saper leggere almeno quanto accade a non molta distanza da Palagiano.
Sarebbe stato sufficiente fermarsi a riflettere su quanto si verifica a Melpignano o a Carpino per comprendere come funziona la cultura. Certamente non funziona quando ci si illude di poterla paracadutare come si trattasse di aiuti umanitari. La cultura, perché possa attecchire, va innestata su qualcosa di preesistente.
A Carpino e a Melpignano, il successo dei rispettivi festival non è dovuto alla presenza di cittadini abbienti sotto il profilo culturale; quel successo lo si deve unicamente all’opera di valorizzazione compiuta in favore dei linguaggi musicali già praticati in loco. Compiuta quell’opera, è poi diventato relativamente semplice far appassionare i cittadini di quelle comunità ai linguaggi simili provenienti da altre culture.
Trovo che sia ai limiti della follia, invece, il tentativo esperito a Palagiano attraverso i vari Cisco, in campo musicale, o i vari Mentana, in campo letterario. Quando mai, dalle nostre parti, abbiamo potuto vantare cantori della fatica delle officine o un giornalismo che riesca ad astrarsi dalla cronaca spicciola e dalla nota di colore?
Se non è ancora follia è certamente provincialismo becero. Dello stesso tipo di quello mostrato da chi si dice convinto che i “modelli” culturali siano solo merce da importare.
Non si fa molta strada in questo modo, e tantomeno se ne fa fare al territorio che diciamo di amare.
Si sfugge alla morsa del provincialismo in una sola maniera, valorizzando e riconoscendo dignità culturale a quanto è già presente in loco. Facendo diversamente continueremo ad essere ciò che già siamo: degli elemosinanti cultura con tanto di cappello in mano.
Mimmo Forleo
PS. Ci tengo a precisare, ai pochi che si dedicano da qualche tempo alla esegesi di quanto affermo, che il termine “follia” è qui utilizzato nella forma di strumento retorico e di sintesi. Quanti mi conoscono sanno bene che, volendo dare del folle a qualche interlocutore, non perdo tempo in allegorie: preferisco di gran lunga il linguaggio diretto e fuor di metafore.