“Carceri d’invenzione”, il progetto scientifico dell’architetto Antonio Labalestra
28 Febbraio 2012Fonte: http://www.lsdmagazine.com
Di: Francesca Sisci
Che il sistema carcerario italiano sia in condizioni parecchio degradate e degradanti è ormai cosa nota. I detenuti e le guardie penitenziarie sono costretti a vivere e a condividere spazi e ambienti malsani e male organizzati. Il Piano carceri, ormai avviato dal 2010, prevede la costruzione di venti nuovi padiglioni, come ampliamento di organismi già esistenti, e undici nuovi istituti. Questa è, o sarebbe, la soluzione ai tanti problemi che hanno portato ad una vera e propria emergenza e che sono, per lo più, causati dal sovraffollamento delle carceri. In effetti potrebbe sembrare molto logico: se le prigioni sono traboccanti basta costruirne altre identiche. Ma sarà evidente a tutti come questo modo di agire mostri, e senza tanti problemi, le sue incrinature. A pensarla così è stato anche l’architetto Antonio Labalestra, già professore a contratto presso il Politecnico di Bari, che con il progetto “Carceri d’invenzione” sta portando avanti uno studio approfondito e rigoroso della tipologia edilizia carceraria. Una ricerca unica nel suo genere e che non annovera precedenti.
Il logo scelto per rappresentare “Carceri d’invenzione” richiama in maniera abbastanza evidente la pianta di una cella di un tempio classico. Come mai questa scelta, ha un valore simbolico?
Affinché il progetto, in tutte le sue parti, rimanesse il può possibile legato alla realtà barese del Politecnico ho chiesto alla ex studentessa del corso di design industriale Paola Taccari, ora promettente designer, di studiare questo logo nella massima libertà. Ovviamente l’etimologia della parola “cella”, intesa come spazio, viene proprio dalla cella del tempio in cui veniva conservata la statua del nume, in seguito è avvenuta una trasposizione ed un’evoluzione del concetto di cella. Attualmente, nonostante le origini nobili, si può dire che i detenuti sono invece trattati come figli di un Dio minore. Ma in entrambi i casi fa riferimento all’idea di “costrizione” che nel tempio ha un’accezione più metaforica, mentre nella dimensione carceraria è un’esigenza, quasi un’aggravante della pena considerando le condizioni spaventose di detenzione. Far riferimento alle origini nobile della parola corrisponde allo scopo del progetto di voler nobilitare le carceri.
Cosa, da architetto, la fa maggiormente inorridire della situazione carceraria italiana?
Il grosso problema delle carceri è che non c’è un progetto. Questa mancanza la si denota aprendo un qualsiasi manuale di progettazione, che sia dell’architetto o dell’ingegnere, al cui interno si possono trovare esaminate diverse tipologie edilizie tranne quella carceraria. Questo accade in Italia, anche perché, quando ci si approccia alla costruzione di nuove strutture detentive, a parte alcuni vincoli dettati dalla Legge, non viene incentivato uno studio sulla dimensione fisica dell’uomo e sulle dimensioni minime abitative, cosa che invece accade per altre tipologie sia pubbliche che private. Il fatto che non ci sia attenzione nella progettazione del carcere denota anche una scarsa considerazione delle condizioni del detenuto. Ecco perché l’architetto dovrebbe occuparsi di questi ambiti in maniera più puntuale al fine di concepire spazi in cui sia garantito il rispetto della dignità umana.
Quale elemento innovativo, lei ritiene, sia assolutamente da apportare agli istituti penitenziari italiani?
La cosa più importante che, secondo me, si può e si deve fare è quella di ricercare una dimensione spaziale che sia rispettosa del detenuto e di chi nel carcere ci lavora. Queste persone, infatti, si trovano spesso a subire, loro malgrado, le stesse condizioni del condannato e devono agire in situazioni sfavorevoli allo svolgimento delle loro mansioni. La complicazione nasce dal fatto che la stragrande maggioranza delle carceri italiane sono degli edifici storici, quindi con una serie di problematiche legate alla necessità di adeguamento sia tecnico che tecnologico, il tutto aggravato dalla totale mancanza di uno studio appropriato di questa tipologia edilizia. A dispetto di ciò la costituzione italiana (vedi art. 27) e il suo ordinamento giuridico prevedono che chi subisce una pena detentiva debba certamente scontarla ma deve anche essere introdotto in un percorso di rieducazione e reinserimento nella società. Dal punto di vista dell’architetto questo si dovrebbe tradurre in una serie di spazi dove è possibile attuare attività volte al recupero dell’individuo. Fare questo all’interno del penitenziario vuol dire dare opportunità di lavoro e fare formazione, cosa davvero utile in questo ambiente, dove la maggior parte dei detenuti commettono reati a causa di un già pregresso scarso inserimento nel tessuto sociale, a causa del basso livello di istruzione e della conseguente difficoltà di trovare occupazione. I margini di intervento si fanno più evidenti mettendo al confronto il nostro sistema carcerario con quello di paesi culturalmente più all’avanguardia, tipo del nord Europa, dove viene posta particolare attenzione rispetto le possibilità di interazione tra il detenuto e la società civile esterna. In queste realtà si riscontra, ad esempio, la presenza di spazi adibiti agli incontri familiari, agli incontri coniugali ma anche spazi dedicati alla socializzazione. In particolare negli istituti detentivi femminili sono stati pensati luoghi dedicati alle mamme che in questa maniera possono naturalmente affiancare il loro figli nel periodo di allattamento o nel primo periodo della crescita, anche se costrette al regime di detenzione. In Italia poter fare tutte queste attività spesso non è possibile, ed è in questo senso che l’architetto può dare il suo contributo: studiando spazi in funzione di queste esigenze.
Spesso la collocazione degli edifici carcerari è al di fuori delle città. Questo modo di operare è dettato solo da necessità di spazio o rispecchia la concezione che la società attuale ha del detenuto?
Metaforicamente l’idea di tenere un carcere fuori da un centro abitato esprime la volontà di allontanamento, cosa che è del tutto contraria al fine ultimo di reinserimento del carcerato nella città stessa. Inoltre così facendo si rende meno facile il suo raggiungimento e dunque anche la possibilità di accedere alle visite parentali. Purtroppo però l’espansione urbanistica delle città non rende solo più facile pensare di costruire nuovi carceri in posizione periferiche, ma anche di spostare quelle all’interno della città poiché occupano terreni altrimenti appetibili ad amministrazioni e costruttori. Non è un caso che qui a Bari si stia pensando di chiudere l’istituto esistente per realizzarne uno ex novo all’esterno. Questo, a mio parere, va contro ogni logica nonché contro le linee d’interpretazione dell’architettura carceraria attuate in altri paesi.
Ma se è pur vero che collocare un carcere all’esterno di una città non è una soluzione ottimale, è pur vero che carceri come quello di Bari hanno bisogno di essere ristrutturati ed adeguati proprio a quelli che sono degli standard di benessere del carcerato. Dunque come si procede in questo caso?
E’ proprio in quest’ambito che le tesi di laurea da me portate avanti si stanno muovendo: la riqualificazione di un organismo edilizio carcerario che proprio della sua posizione centrale rispetto al tessuto urbano fa il suo punto di forza. Oltre all’impegno di Gabriella Massari, la prima studentessa che con buona probabilità già nella sessione estiva discuterà i primi esiti di questa ricerca, stiamo cercando di far lavorare più gente possibile su questo tema coinvolgendo anche studenti, docenti e studiosi di altre città e altre facoltà d’Italia e non solo, chiedendo loro di redigere progetti alternativi al nostro partendo dagli stessi presupposti, ovvero le cause che hanno generato l’emergenza carceraria. A Roma, Alghero e nella facoltà di Barcellona è già stata accolta la nostra proposta, ed ora sarà interessante vedere come persone appartenenti a diverse realtà si approcceranno,nei loro progetti, a questo tema.
Sull’isola di Bastoy, vicino Oslo, c’è un carcere esemplare, dove la vita carceraria è sicuramente di un livello qualitativo superiore alla maggioranza delle carceri mondiali. Contrariamente a questa esperienza Sergio Lenci, progettista del carcere di Rebibbia, ha affermato che carceri aperte non esistono. Come sarebbe possibile conciliare l’idea di un carcere aperto, senza nemmeno mura di cinta, con lo scopo principale di questo edificio ovvero recludere?
L’esempio citato di Oslo è la dimostrazione che questo tipo di detenzione funziona. Certo c’è da dire che l’ordinamento penitenziario e gli aspetti giuridici di quella realtà sono differenti da quelli che ci sono in Italia. Ma in una situazione come quella italiana in cui, secondo le analisi Istat,buona parte dei reati commessi sono quelli contro il patrimonio, un ruolo molto importante l’assume l’attività di prevenzione della delinquenza affinché le carceri non siano sovraffollate. Problema che si è ulteriormente aggravato con l’introduzione del reato di immigrazione clandestina. Rispetto al progetto di Sergio Lenci per Rebibbia questo rimane, nel panorama nazionale, uno dei pochi esempi virtuosi di progettazione. Progetto che il suo autore ha pagato al prezzo di un attentato da parte di un gruppo terroristico secondo il quale Lenci sarebbe stata reo di aver progettato il carcere di Roma-Rebibbia con criteri di rispetto dei diritti umani dei prigionieri, con il risultato di ridurre quel maggiore “potenziale rivoluzionario”, solitamente presente in una struttura detentiva, sul quale i terroristi probabilmente contavano a fini sovversivi.
Per far si che carceri più umane vengano realizzate non è necessaria anche una rivoluzione culturale rispetto a quella che è la percezione del recluso?
Certo, carceri come quelli del nord Europa funzionano proprio perché l’immagine del detenuto è legata ad un altro contesto culturale. In Italia c’è l’idea di dover emarginare chi ha commesso un reato. In realtà una società civile dovrebbe preoccuparsi del reinserimento di chi ha commesso un errore, ed il modo migliore non è certo quello di fargli soffrire un isolamento ulteriore.
Nel libro Austerlitz, di Winfried Georg Sebald, il personaggio, J. Austerlitz, ha condotto la professione di ricercatore e professore di storia dell’architettura a Londra per parecchi anni, ed il suo progetto di ricerca ha come obiettivo quello di ricostruire la storia delle mentalità, in particolare giuridiche, attraverso la storia delle forme architettoniche nelle quali esse si sono simbolizzate. Volendo provare a fare lo stesso con le carceri italiane, secondo lei, quale periodo storico rispecchiano?
Credo purtroppo che si debba tornare molto indietro. Proprio in relazione alla condizione in cui versano gli istituti penitenziari. Riguardo quelli che ho avuto modo di visitare posso dire che sembra di fare un passo indietro nel tempo sia rispetto hai diritti umani, che non sono garantiti, sia rispetto alla dignità dell’individuo. In alcuni casi si constatano livelli di qualità della vita che non sembrano essere quelli degni di un Paese che si vuol definire civile.
Nell’ambito del Progetto “Carceri d’invenzione” è stata prevista anche la possibilità di sapere dai diretti interessati cosa ne pensano della loro situazione, mediante questionari distribuiti all’interno del carcere di Bari. Quali sono i disagi e i bisogni emersi in maniera preponderante?
Nonostante le difficoltà che abbiamo incontrato ad entrare nella realtà carceraria, abbiamo rincorso questa possibilità con ostinazione proprio per dare voce ai detenuti e agli operatori che quotidianamente vivono questa realtà. Quando si progetta una casa lo si fa in funzione di chi l’andrà ad abitare. Quando si progetta un qualsiasi edificio il committente e le sue necessità sono costantemente tenute in considerazione. In carcere l’utente, il detenuto, non ha voce in capitolo. Mediante i questionari vogliamo dargli questa possibilità, cercando di comprendere se le esigenze di chi è recluso sono compatibili con un sistema carcerario. Ed è per questo ulteriore motivo che ritengo sbagliato allontanare il carcere dalla città, infatti i pochi detenuti con cui ho avuto modo di parlare si dicono quasi entusiasti di avere la possibilità di affacciarsi dalla finestra e poter anche interagire, ad esempio, con gli inquilini dei palazzi di fronte.
Gli istituiti penitenziari italiani sono ancora un luogo di controllo ed assoggettazione al potere dello Stato? E vengono ancora costruiti e progettati a questo scopo?
Michael Foucoult in “Sorvegliare e punire. La nascita della prigione” (1975) e soprattutto Jeremy Bentham si sono soffermati sull’idea di Panopticon come istituto carcerario perfetto,promuovendo quindi un controllo totale dei carcerati come condizione ideale della detenzione. In questo senso attualmente lo Stato è ancora molto presente come istituzione all’interno dell’edifico penitenziario, e lo si avverte dovendo superare una serie di impedimenti fisici, cancelli e punti di guardia. Lo senti che lo Stato c’è ed il controllo è molto forte.
Attualmente non si possono annoverare grandi nomi dell’architettura come progettisti di alcun carcere. Come mai nessuno se n’è mai occupato?Non ripaga in termini di immagine?
Il nostro progetto nasce per questo, perché non c’è attenzione ma soprattutto non c’è la volontà di costruire nuove carceri in senso moderno. E poiché anche la ricerca è soggetta alle leggi della domanda e dell’offerta il risultato è una presenza molto rarefatta nel panorama della ricerca scientifica di indagini sulle carceri. A parte questo alcuni casi come quello già citato di Sergio Lenci, o alcuni progetti di Giovanni Michelucci, rappresentano dei punti molto alti di riflessione su questa tipologia. Ma la verità è che anche nei bandi che vengono presentati per la costruzione di nuovi istituti, come quelli pubblicati di recente con il Piano carceri, non ci sono parametri precisi se non quelli del minor costo possibile nonché minor tempo possibile di realizzazione. Dunque il tempo per fare ricerca non c’è, e questo va a discapito della qualità e delle opportunità di coinvolgere persone interessate.
“Carceri d’invenzione” quali obiettivi si pone?
Il nostro obiettivo primario è quello di sistematizzare la produzione scientifica che riguarda le carceri. E per farlo dobbiamo mettere insieme più conoscenze e più esperienze possibili rispetto alla progettazione degli istituti di pena, ma è anche necessario ascoltare tutte quelle persone, partendo dal detenuto per arrivare fino alle figure professionali che con il carcere si confrontano quotidianamente, riuscendo così a far emergere problemi e necessità. Parallelamente a questo tutto i dati raccolti e sistematizzati verranno proposti come risarcimento ideale rispetto all’attuale mancanza di voci manualistiche in materia di progettazione delle carceri. Le informazioni e i risultati raggiunti, ovviamente, saranno disponibili a chiunque vorrà attingere dal nostro lavoro, sperando magari di trovare un editore illuminato disposto a pubblicare gli esiti di questa ricerca.