Il crociato dell’economia. Tributo a Ludwig von Mises
10 Ottobre 2013Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gerardo Coco.
Il 10 ottobre di quarant’anni fa Ludwig von Mises (29 settembre 1881-10 ottobre 1973) lasciava questa valle di lacrime. Il post-keynesiano Paul Samuelson lo incluse nella lista dei meritevoli del Nobel per gli anni trenta del XX secolo e da molti altri è stato considerato uno dei più importanti economisti del Novecento. Come si spiega allora che l’economista austriaco è come non fosse mai esistito? Perché è stato ignorato dai manuali di economia o nel migliore dei casi relegato in nota? Qualche riflessione storica aiuterà a comprenderlo.
Nel XIX secolo gli oppositori di David Ricardo non gli lesinarono insulti arrivando a definirlo come «l’illetterato agente di cambio ebreo». Ciò non impedì che le sue teorie segnassero un’epoca di sviluppo rendendo l’Inghilterra «l’officina del mondo». Ma quando Ricardo scriveva il clima era quello del liberalismo, un movimento che, affermando il valore dell’individuo e difendendone dignità e uguaglianza politica, mirava ad un ordine sociale ed economico capace di affrancarlo da ogni pressione esterna che potesse limitarne lo sviluppo. Fra le condizioni che determinano l’evoluzione economica di una nazione vi è anche la politica, la cultura, lo stato intellettuale generale degli uomini, in una parola, la pubblica opinione. Un popolo la cui maggioranza dei cittadini crede nel libero mercato, agirà diversamente da un popolo presso la cui maggioranza dei cittadini lo ritiene nocivo.
Quando Mises apparve sulla scena, il liberalismo ne era già uscito. Dopo aver spianato la strada ad un ampio sviluppo dell’economia fu ridotto da nazionalismi e ideologie a un credo di una minoranza conservatrice e l’individualismo fu gettato fra i cocci. Con la prima guerra mondiale prima e le crisi finanziare poi, si sviluppò un nuovo principio direttivo per l’economia, l’interventismo, ideale in base al quale si cercava di regolare il corso dell’economia con disposizioni autoritarie. Questa dottrina portata alle estreme conseguenze produsse socialismo, fascismo e nazionalsocialismo. La pianificazione economica e lo Stato Totale divennero moda e slogan approvati dall’opinione pubblica. Ognuno voleva la “sua” dittatura ed è per questo si ebbero gli Hitler e i Mussolini, ostili al libero mercato. In particolare, lo spettacolare successo di Hitler e la sottomissione del continente europeo da parte nazista fu dovuto al fatto che i suoi presunti nemici condividevano, in fondo, le idee che il dittatore sosteneva. Questo spiega l’incredibile e colpevole indulgenza europea nei confronti del nazismo al suo apparire. Successivamente, e purtroppo in ritardo, si lottò contro i totalitarismi, ma dalle loro ceneri l’interventismo risorse nella veste di progressismo, forma di cooperazione sociale democratica basata sulla giustizia sociale e sull’egualitarismo che superando il marxismo rivoluzionario e il capitalismo prometteva pace e progresso, presupponendo però ancora, per attuarli, la necessità di un apparato di potere coercitivo.
Contro ogni interventismo
Questo era il clima dell’epoca in cui l’austriaco Mises visse e scrisse e quando interventisti, neo-marxisti, socialisti, corporativisti e poi progressisti ebbero a turno il monopolio della cultura. Mises esercitò contro di loro una critica sistematica. Negli anni fra le due guerre, per la sua vena polemica, intransigenza intellettuale e per la sua origine ebraica, fu costretto a fuggire prima in Svizzera e poi in America. Come si era permesso questo economista eterodosso, sfidando l’opinione ufficiale, di criticare lo Stato; sostenere che la moneta deve essere sottratta al suo controllo perché è un’istituzione del libero mercato; che lo Stato e il sistema bancario erano gli autori delle crisi? Come osava negare allo Stato la capacità di saper interpretare gli interessi individuali meglio degli individui stessi e negare la necessità di darli un cervello che li guidasse e regolasse? Solo un estremista poteva esprimersi in questo modo. Mises criticò anche il New Deal roosveltiano, che era la sigla americana di politiche interventiste già intraprese ovunque e che non differiva se non per dimensioni dalla politica del Kaiser Guglielmo II e da quella della repubblica di Weimar. Verso la fine degli anni trenta l’interventismo si presentò nella nuova versione miracolista secondo la quale adottando le politiche cosiddette anticicliche non ci sarebbero più state più crisi ma prosperità perenne. Era la dottrina keynesiana. Che nuova musica per governi e opinione pubblica! Mises si trovò esule in esilio e ancora una volta fuori moda. Gli fu sbarrato l’accesso all’insegnamento nelle università di prestigio. Solo grazie ad un amico giornalista riuscì a trovare un posto in una università minore, la NY University. Ecco, dove risiede, prima di tutto, la grandezza di Mises: essere stato l’unico intellettuale in un epoca di conformismi, mode e servilismi, a difendere l’economia di mercato. Nessuno come lui ha spiegato con pari logica e profondità analitica, gli effetti di breve e lungo periodo dell’economia regolata insieme ai disastri finanziari e alle gravi disfunzioni nei mercati che ne sono derivati. Per questo motivo merita un posto d’onore nella storia del pensiero economico.
Il significato dell’opera
Contro chi sparlava di anarchia del mercato e auspicava la pianificazione, Mises mostrava che questa è già immanente al mercato anche se nessuno se ne accorge. Ogni giorno milioni di uomini pianificano per espandere le loro attività, ne aprono di nuove, introducono nuovi prodotti e servizi, innovano metodi di produzione, acquistano, vendono, cambiano e assumono persone, migliorano le proprie capacità, cambiano occupazione e così via. E tutto questo pervasivo processo pianificatorio viene fatto in base a criteri di convenienza cioè in base ai prezzi che coordinano e armonizzano le azioni di questi milioni di pianificatori indipendenti. E, come Mises spiegava, essi, nel cercare di guadagnare ed evitare perdite, sono obbligati non solo a programmare le proprie attività di produzione in modo da adattarsi a quelle di coloro che la consumano ma anche a tenere conto dei piani di attività di tutti gli altri pianificatori indipendenti che, in ogni parte del sistema economico, usano gli stessi fattori di produzione. Organizzare l’economia in base al criterio del profitto significa organizzarla secondo la volontà dei consumatori. Da cui discende che, in questa pianificazione, gli unici dittatori nell’economia sono i consumatori stessi dalla cui domanda dipendono i prezzi dei beni e la sopravvivenza stessa dei pianificatori indipendenti che devono soddisfarli producendo ciò che essi desiderano. Questa è la vera pianificazione razionale che agisce negli interessi di tutti i partecipanti compresi i suoi oppositori. Organizzare l’economia in base al mercato significa seguire la volontà del consumatore sovrano, mentre organizzarla in base a criteri collettivisti significa affidarsi a un pugno di burocrati che non si accollano le perdite della loro gestione ma le scaricano sulla collettività. Perché per ripianarle saranno necessarie sovvenzioni provenienti o da imposizioni fiscali o debiti. Tutto ciò che è prodotto dalle attività individuali nel mercato è destinato ad essere scambiato con il prodotto di altre attività individuali e tutto ciò che l’uomo produce e che la società raggiunge di grande e duraturo è il risultato solo di una sola, unica grande cooperazione volontaria che non è altro che una pianificazione involontaria. Il socialismo non rappresenta la pianificazione ma la distruzione della pianificazione. Socialismo significa infatti abolizione del sistema dei prezzi e della divisione del lavoro e dunque l’impossibilità di calcolare e di rapportarsi alle attività altrui; significa centralizzare tutto il processo decisionale eliminando l’incentivo a produrre; sottrarre le attività produttive alla concorrenza e al sistema dei prezzi rendendo così impossibile la coordinazione e l’armonizzazione di interessi diversi. Il sistema di un’economia di mercato controllata o mista si differenzia dal socialismo puro per il fatto che è ancora un’economia di mercato che però lo Stato cerca di influenzare perché vuole che produzione e consumo si sviluppino secondo linee differenti da quelle del libero mercato. Per perseguire questo scopo deve di continuo iniettare nel mercato ordini, comandi e proibizioni per la cui applicazione sono pronti la forza e l’apparato coercitivo. Questi interventi che una volta erano isolati, si sono combinati in un sistema completamente integrato e sofisticato, la macroeconomia, che regola prezzi, salari e tassi di interesse. Ma come allora Mises sapeva e come oggi sappiamo, questi interventi finiscono per portare al collasso. E infatti uno dei maggiori contributi dell’economista austriaco è stato di mostrare che queste politiche, in particolare la continua espansione del credito e la riduzione dei tassi di interesse creano investimenti insostenibili che privano il sistema economico della liquidità portandolo alla depressione.
Il maggior contributo
L’opera di Mises che fu un pensatore integrale, economico, sociale e politico, è notevole e fra i suoi libri più noti ricordiamo la Teoria della moneta, Socialismo, Lo Stato onnipotente, La mentalità anticapitalista, I fallimenti dello stato interventista, Teoria e storia, Burocrazia e L’azione umana che è una summa del pensiero economico liberale. Forse l’opera più significativa è la Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione di cui la prima edizione è 1912. Con anni d’anticipo Mises prevedeva la crisi del marco tedesco e la Grande depressione. Egli aveva capito che il problema principale era la manipolazione monetaria. Era questa che innescava le violente variazioni cicliche del credito portando alle peggiori patologie del corpo economico. I governi e la gente comune, scriveva, crede che la ricchezza si possa creare con i torchi della zecca e distingueva così tra inflazionismo ingenuo e quello intenzionale che persegue la svalutazione monetaria proprio a motivo dei suoi effetti negativi. Favorire i debitori, incoraggiare le esportazioni e rendere difficili le importazioni, stimolare la produzione o l’acquisto di attività speculative rimangono ancora oggi gli obiettivi delle politiche monetarie dei nostri giorni. Ma come Mises dimostrava e come la prassi ha sempre confermato, questi espedienti non solo si risolvono in trasferimenti di ricchezza ma nella sua distruzione. L’effetto finale nell’economia è il consumo di capitale il cui rapporto col lavoro decresce abbassandone la produttività, i salari diminuiscono e si innescano deindustrializzazione e disoccupazione. Eppure la politica monetaria inflazionista ha il costante sostegno popolare perché per il profano è difficile coglierne tutte le implicazioni. Se, scriveva Mises, per cercare di incentivare l’economia, il governo ricorresse alla sola tassazione, la gente comprendendo immediatamente la provenienza delle risorse e si opporrebbe alle dissipazioni; ma quando lo stato o il sistema bancario crea dal nulla i mezzi fiduciari o si indebita all’esterno, la gente non cogliendo più il legame tra la spesa dei governi ed il proprio portafogli, applaude a questa politica perché l’effetto a breve sembra essere risolutivo, mentre non si accorge che viene spogliata del potere d’acquisto. Per questo la continua espansione del credito, come strumento di distribuzione della ricchezza è caro alle élites finanziarie che contano sulla completa ignoranza delle masse in materia monetaria. La moneta di nuova creazione, infatti, non è neutrale e quando entra in circolo non va nelle tasche di tutti in modo uniforme ma entra prima in quelle di chi è al potere cioè dell’establishment finanziario. Ne consegue una redistribuzione della ricchezza a danno delle classi più deboli in barba ai programmi di equità e di giustizia sbandierati dai governi interventisti. È evidente come il coro servile degli economisti al servizio dello stato e delle banche abbia cercato di reprimere la voce critica e indipendente del guastafeste Mises. Egli non avrebbe mai accettato compromessi e mai sacrificato le sue convinzioni all’interesse politico. Quando infatti gli fu chiesto quale sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto se fosse stato nominato ministro dell’economia rispose senza esitazioni che avrebbe dato le dimissioni. Sapeva che la sola arma della ragione, da lui definita come il solo mezzo per combattere l’errore, era insufficiente di fronte a ideologie o a interessi di lobbies che impediscono di prendere atto dei regolari fallimenti dello stato interventista. Che oggi la stragrande maggioranza non riconosca questa realtà e aderisca a ideologie economiche distruttive è il segno della più profonda decadenza.
Il corpo della conoscenza economica è un elemento essenziale nella struttura della civiltà umana, ha scritto Mises, ma se gli uomini trascureranno i suoi principi e i suoi moniti, non elimineranno l’economia, ma la società e la razza umana (L’azione Umana).
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