Il dialetto, un’altra civilta’. di L. Perniola

27 Luglio 2006 Off Di Life

 Allucscen Pruvvden e' il nuovo tributo alla “primavera palagianese”, che da qualche tempo vede fiorire tutta una serie di studi sulla civilt? locale, stavolta prende le mosse dalla sfera privata di un ex dirigente delle Poste che avvertiva da anni l?esigenza di rievocare i momenti della propria fanciullezza, resi quasi mitici dal trascorrere del tempo.
La prefazione ? affidata al professor Biagio Lor?, docente di Storia della Pedagogia all?Universit? Roma 3, fraterno amico d?infanzia dell?autore.
Secondo quanto dice Lor?, in forma scritta, “il proverbio popolare cede la sua linfa per diventare pezzo museale di una archeologia della parola” nel quale “un mondo vivo conclude la sua
esistenza e lascia i suoi segni inerti all?analisi dello studioso”.
Il fine “pedagogico” del libro, invece, ? sottolineato, dall?editore Delli Santi che si dice certo del fatto che tra i palagianesi “chi non conosce il passato lo rivivr?”.
Allo stesso tempo, Festa condivide questo tentativo di recupero dell?identit? popolare con alcuni grandi autori della letteratura nazionale, che con gli idiomi popolari e le impervie vie
della sua traduzione si sono confrontati lungo l?arco dell?esistenza.
Ha un sapore vagamente pirandelliano, infatti, l?operazione che l?autore ha attuato, prima in pillole in una rubrica sul portale Palagiano.net, poi attraverso questa
antologia di detti lunga circa trecento pagine, fitte di “vernacolo natio”: “Mi sono imbattuto in tanti di loro che dormivano negli anfratti pi? reconditi della mia coscienza – ha scritto Festa – molti li ho presi dai miei compaesani, uomini e donne, per lo pi? vecchi ed anziani, colti e semi analfabeti. Tutti, quale ne fosse la fonte, non vedevano l?ora di ritornare a vivere per come si sono mostrati felici al momentodel loro risveglio”.

In bilico tra natura e societ?, questa “parentesi di gioconda freschezza popolare”, per dirla con Gobetti, scorre tra “na sp?nd? e nna kad?t” (tra una spinta e una caduta, val la pena tentare), leggera e gradevole sotto gli occhi del lettore occasionale, gradita e degna di attenzione dinanzi a quelli dello studioso, in ogni caso accompagnata da un compiaciuto interesse.
E? un mondo tra il boccaccesco e il picaresco, infatti, quello che si apre nei quattro capitoli in cui ? suddivisa l?opera, grazie al quale Festa riporta alla luce antiche voci che paiono riecheggiare dal passato, a raccontare la vita semplice eppur faticosa di oltre cento anni di storia palagianese.
Come in tanti romanzi verghiani, la funzione narrante scompare dietro i pittoreschi toponimi in uso nel vernacolo, attraverso i coloriti epiteti, spesso metaforici, di cui si nutre la cultura contadina.
Regolata dal tempo circolare dei campi, nel mondo agreste palagianese, la vita dei popolani ora scaltri ora beoti Kj?pp?, Kjapp?n? e Mmatar?zz?, Bald?n? e J?nna J?nna, Menga M?ngh? e
Kk?la K?l?, C?cc?, N?k?l? e nn?s kak?t?, vede sfilare eroi e briganti, papi e re, da R?t? a Pp?l?t? (Erode e Pilato) a Gar?bb?ld? e Pappaj?n? (Garibaldi e Papa Leone?), tesa a toccare ora l?interesse economico, ora la falsa pudicizia della morale sessuale.
Poi vengono povert? e ricchezza, bellezza e deformit?, laicit? e santit? e tutte concorrono a raccontare la vita e la morte ai tempi del secolo che fu, in una sorta di continuo travaso dalla grande storia, quella ufficiale dei libri, a quella forse meno conosciuta, ma certo pi? vera, della vita quotidiana della gente dei campi.
Nel libro, accanto alla dimensione naturale, convive una visione dissacratoria e lacerante della vita, tra superstizione e fede e l?arcaico mondo contadino palagianese, pur legato ai riti della
natura, non pu? fare a meno della propria religiosit?, quella “a ll?avv?r? Kr?st” (quella seria).
Ne sono testimonianza molte invocazioni e le usuali imprecazioni alla divinit? riportate qua e l? nel testo.
Sospese tra timore e insolenza, a seconda del caso, esse chiamano in causa l?intera corte celeste: dal meno noto “Sc?m? a ssan Kat?ll? e ppo? v?n?m?, u gr?n? ? ngan?l?t e ll?u?rg? ? kkj?n” (Andiamo a San Cataldo e poi torniamo, il grano ? “incanalato” e l?orzo ? pieno, a indicare i primi giorni di Maggio, quando inizia la maturazione di grano e orzo) al pi? comune “Arr?ku?rdt
ka Kr?st ? ggr?nn!” (ricordati che Cristo ? grande, a m? di monito in diverse occasioni).
Al tema della religiosit?, inoltre, l?autore ha dedicato l?appendice, in cui sono riportati i testi di arcaici canti religiosi con storie di santi e leggende, alcuni dei quali raccolti ascoltando le melodie originali dalla viva voce di alcune anziane signore palagianesi: si va da “La Leggenda di San Giorgio” alla “Settimana Santa” passando per “Santa Lucia” e “Santa Filomena” fino a “La mor te”.
Pagina dopo pagina, insomma, dal libro emergono gli umoristici personaggi dai canoni della commedia rusticana umanistica, in tutta la loro originaria espressivit?.
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Si ritrova in questa raccolta quella che il critico Luperini definirebbe come “fisiognomica sociale del linguaggio”, ossia la facolt? mimetica di quest?ultimo di andare oltre i singoli individui
per investire usi e consuetudini antropologiche di un intero corpo collettivo: ? una lettura, in sostanza, che riporta alla mente l?espressivit? mimica e un certo tono del discorso caratteristico della gente del sud.
Per raggiungere lo scopo Festa non ha lasciato nulla d?intentato: espressioni tipiche, nenie, cantilene, filastrocche e stornelli, sono stati selezionati per compiere una duplice operazione.
Da un lato, la rievocazione di una dimensione corale della vita quotidiana della Palagiano di oltre un secolo fa, dall?altro, l?opera “filologica”, seppur volontariamente appena accennata,
con la traduzione in Italiano corrente di molti detti, laddove l?oralit? ha permesso.
Interessante, in particolare, il parallelo con i proverbi toscani di Giuseppe Giusti, nell?ultimo capitolo del libro, ma il discorso potrebbe allargarsi ad altre aree geografiche in eventuali nuovi
lavori.
L?autore, infatti, per formazione n? filologo n? glottologo, per sua stessa ammissione, ha preferito un certo approccio “sentimentale” e puramente socio-letterario nella ricerca di proverbi
e detti, privilegiando la preminente lotta contro l?oblio del tempo perduto: “La gioia che provavo nel ritrovarne qualcuno a volte veniva offuscata dal timore che altri fossero ormai irrimediabilmente andati persi.
Mai per? ? venuta meno la speranza che tanti e tanti ancora fossero e siano l?, pronti per essere raccolti e messi al sicuro”, ha scritto.
In questa operazione Festa ha attraversato il tempo e lo spazio, andando a rebours, a ritroso con la mente e col cuore, alla Palagiano dei pastori e dei sciurnater (i braccianti locali), quella dai tetti imbiancati, dalle fontane zampillanti, dalle strade polverose, dai grandi carri trainati dagli asini.
Nella faticosa raccolta di questo materiale, che per sua natura si ribella alle strette forme del linguaggio convenzionale, l?autore si ? trovato spesso in difficolt? nella scelta dei criteri di
selezione e catalogazione di molte delle espressioni ritrovate.
Per definizione, infatti, il proverbio appartiene ad un repertorio che si nutre di modi di pensare “storicamente popolari”, direbbe Gramsci, ossia orali, ma da Omero in gi?, se non prima,
come attestato da diversi testi sacri, compito degli scrittori ? anche riportare su carta ci? che ? nato per essere solo ascoltato.
Non a caso i motti riferiti da Festa usano l?onomatopea, rimano, allitterano, si rincorrono sul filo delle vocali cos? come sono nati per essere agevolmente ricordati.
L?aver recuperato, accanto all?interpretazione originaria di molti di questi detti e proverbi, i differenti sensi acquisiti dalle espressioni popolari attraverso gli anni,rappresenta un merito ulteriore dell?autore.
Del resto, il problema della traduzione, postulata l?intraducibilit? del lessico originario, ? un dilemma di non facile soluzione.
Per gli italiani, popolo dai molteplici idiomi, lo ? ancora di pi?, a dir poco dalla crisi postunitaria.
Per non parlare della “omologazione” linguistica borghese contestata da
Pasolini.
Ne sapeva qualcosa anche Tot?, che vide offuscata la popolarit? dei suoi film all?estero a causa dell?inefficacia della traduzione, che disperdeva il grande effetto comico delle battute in napoletano.
Ecco perch? il compito di Festa, di raccontare la lingua “viva”, di riprodurre su carta la parlata spontanea, ? un tentativo di compromesso linguistico tra lingua e stile, tra sistema strutturato di segni e concreto utilizzo della comunicazione mediante la lingua, tra “oggettivazione e individualizzazione” avrebbe detto Pirandello, che di certe cose s?intendeva.
Lo scrittore siciliano, inoltre, aggiungeva, sulla scia del Capuana, che la parola dialettale “? la cosa stessa, non pi? detta ma viva, connaturata con l?azione”.
Pirandello sapeva bene, per?, che il dialetto era comunque un mezzo di comunicazione ristretto, cosa che lo convinse della necessit? della traduzione.
L?evocazione del dialetto, perci?, con tutti i suoi effetti perlocutori, senza la traduzione risulterebbe inaccessibile ai molti, in questo caso ai giovani palagianesi, poich? in gran parte lingua
oscura e fuori dal mondo contemporaneo.
Del resto, raccogliere tanto prezioso materiale senza tentare la spiegazione del mondo valoriale a cui esso riferisce sarebbe stato lavoro per addetti del mestiere,esattamente ci? che Festa ha voluto evitare.
Se ? vero, infatti, che la traduzione costringe i tanti sensi del dialetto nella concisa lingua nazionale, diradando la koin? linguistica esistente nel testo dialettale, ? altrettanto vero che la trasparenza linguistica dell?Italiano ? funzionale alla “trasmissione non equivoca del messaggio” direbbe lacritica letteraria M. L. Altieri Biagi.
Tuttavia, Festa lascia campo aperto a spunti e osservazioni che potrebbero intervenire su eventuali lavori futuri.
Palagiano conta da tempo diversi gruppi teatrali: il carattere parlato presenta i proverbi come brevi scene drammatiche molto vicine a questo terreno.
Festa, o chi per lui, potrebbe riversare sulle tavole di un palcoscenico tutto l?effetto dirompente evocato dal dialetto palagianese, come gi? accade con alcune compagnie
locali.
L?oralit?, le frasi interrotte, le parole smorzate, le sospensioni, in sostanza la “pluridiscorsivit? sociale” di matrice bachtiniana, permettono al lettore e, ancor pi? allo spettatore, di riflettere
su ci? che si ritrova sotto gli occhi.
Potrebbe essere questo il punto di partenza per un interessante lavoro sperimentale.
Certo non porterebbe tutti i palagianesi a esprimersi in puro vernacolo nelle occasioni di vita famigliare, alla maniera di Claudio Magris, noto critico letterario mitteleuropeo, ma
servirebbe a far riflettere sulla necessit? di rivalutare lingua e linguaggi, codici e microcodici, interpretazione e strutturazione della propria realt? vitale.
Del resto, la parola “dialetto” ha la stessa radice di “dialogo” e “dialettica”: anche per questo, lungi dal latente snobismo pseudoculturale che ci vorrebbe tutti atoni e inespressivi, a
Festa va il ringraziamento di averci ricordato la “dialettalit?” a cui apparteniamo.
 
Lorella Perniola