Il mercato come regolatore efficiente, anche in tempo di crisi (2)
4 Dicembre 2011Nel precedente articolo abbiamo parlato di una Grande Falsità che vorrebbe affermare l’esistenza di due presunte verità: 1) l’attuale crisi finanziaria è dovuta al venir meno delle regolamentazioni al sistema bancario; 2) la responsabilità di un tale venir meno delle regolamentazioni è del “neo-liberismo”. Un neo-liberismo, l’abbiamo visto, inventato di sana pianta e gratuitamente appioppato a conservatori e statalisti come la Thatcher e Reagan, per non dire di Blair e dei suoi epigoni.
In questo secondo ed ultimo articolo, dimostreremo come, al contrario di quanto affermato da crassi ignoranti appartenenti alla politica, all’economia e al giornalismo, la crisi finanziaria sia il prodotto coerente di un eccesso di regolamentazione, voluto da statalisti ispirati dalla “presunzione fatale” (così ebbe a definirla Hayek) di saper tutto controllare e convinti di poter dirigere ciò che andrebbe lasciato libero di autodeterminarsi: il mercato.
Partiamo da alcuni assunti elementari che fanno o dovrebbero far parte del bagaglio di qualsiasi studente di economia: il ruolo giocato dal risparmio e dalla moneta sugli investimenti di breve e lungo periodo.
In un’economia non pianificata e libera, quale quella che diciamo di avere in Occidente, gli imprenditori calibrano i loro investimenti, tanto in senso quantitativo quanto in senso temporale, basandosi sulle informazioni che il mercato trasmette loro.
Se i consumatori trascurano di risparmiare e mostrano di voler scambiare moneta contro beni e servizi, la conclusione da trarsi è la seguente: come imprenditore devo impegnarmi a soddisfare la domanda di beni e servizi proveniente dai consumatori, questo significa che dovrò investire gli utili che sto ricavando per potenziare l’offerta attuale di beni e servizi.
Se, al contrario, i consumatori privilegiano il risparmio e trascurano la spesa per beni e servizi, come imprenditore dovrò preoccuparmi di due cose: 1) provare a contenere i costi di produzione, allo scopo di non intaccare eccessivamente gli utili derivanti dal calo di vendite; 2) rastrellare il risparmio allo scopo di fare investimenti tesi a potenziare l’offerta per quando si risveglierà la domanda.
Nel primo caso, quello riguardante la soddisfazione di domanda nel breve periodo di beni e servizi proveniente dai consumatori, assisteremo a un aumento dei prezzi di beni e servizi e, di converso, a un calo degli investimenti per la produzione degli stessi nel lungo periodo.
Nel secondo caso, quello in cui i consumatori privilegiano il risparmio a scapito della spesa, dovremmo invece assistere a una riduzione dei prezzi di beni e servizi e a un aumento degli investimenti per la produzione di detti beni e servizi nel lungo periodo.
Diamo adesso uno sguardo a quanto accaduto nell’ultimo decennio nell’economia mondiale e americana (la patria del neo-liberismo, secondo alcuni) in particolare.
Il mercato americano si è contraddistinto per tutto il decennio passato in questo modo: scarsa propensione dei suoi consumatori per il risparmio e ricorso continuo agli acquisti, sia di beni non durevoli che di beni considerati durevoli (la casa o le automobili). Dovrebbe essere chiaro che, in situazione siffatta, le imprese avrebbero dovuto assecondare la domanda di beni provenienti dai consumatori e avrebbero dovuto trascurare gli investimenti per il lungo periodo. È andata così? Non proprio.
A complicare lo scenario sono intervenuti due fattori che gli imprenditori non hanno saputo o voluto interpretare correttamente: l’affacciarsi di nuovi produttori fortemente concorrenziali (la Cina, ma non solo) e la contestuale dissennata politica monetaria messa in atto da FED e Amministrazione (quella di Clinton come quella di Bush). In pratica, l’America si trovava ad un bivio: avrebbe potuto scegliere di lasciar fare al mercato, oppure seguire (come ha fatto) le politiche economiche suggerite dai monetaristi alla Milton Friedman (pace all’anima sua).
Avesse scelto di affidarsi al mercato, la sua condizione attuale avrebbe potuto essere la seguente: le imprese, sotto la spinta concorrenziale proveniente da Cina ed altri, avrebbero scelto di utilizzare il poco risparmio a disposizione per incrementare la loro scarsa produttività e richiesto un abbassamento del costo del lavoro (richiesta per nulla scandalosa in una situazione di prezzi decrescenti. Va infatti ricordato che, alla fine, ciò che conta davvero non è la cifra stampata sulla busta paga ma il potere d’acquisto consentito da quella cifra).
Purtroppo, anche per il resto del mondo, l’America ha deciso di fare diversamente e ha scelto di utilizzare la leva monetaria come surrogato del risparmio. È accaduto che, in luogo di un risparmio che mancava e che avrebbe dovuto agire come segnale di allarme per le imprese, la FED ha assecondato di buon grado le politiche federali tese a “supplire” con moneta inventata dal nulla il deficit di moneta derivante dalla scarsa propensione al risparmio dei consumatori. In questo modo, il segnale che le imprese avrebbero dovuto ricevere dal libero mercato (i consumatori hanno voglia di spendere e nessuna voglia di risparmiare) è stato sostituito da quello fasullo messo in piedi da FED e governi federali (i consumatori stanno spendendo ma c’è comunque abbondanza di risparmio).
Anche alle imprese americane va comunque addebitata parte della colpa, sapevano infatti benissimo della politica monetaria messa in atto dalle istituzioni ma con molta miopia e ingenuità hanno creduto che nel lungo periodo non avrebbe comportato problemi. Dopotutto, la svalutazione del dollaro permetteva loro di “conquistare” all’estero le quote di mercato che perdevano in casa e sembrava che la politica economica promossa dalle istituzioni stesse dando buona prova di sé anche all’interno: i prezzi di beni e servizi sembravano tenere (invece di abbassarsi, come c’era d’aspettarsi stante la forte concorrenza dei nuovi arrivati, Cina e altri) e la disponibilità di “risparmio” continuava ad essere notevole (quando, come abbiamo visto, era solo fittizia. Non c’era alcun risparmio reale, ma solo nuova moneta immessa indebitando lo Stato).
Quest’ultimo aspetto, la confusione indotta dalla politica monetaria, che pretendeva di scambiare il risparmio reale con moneta creata a debito, lasciava addirittura presagire che si sarebbe prima o poi verificata una impennata ulteriore della domanda e, da un certo punto in poi, le imprese hanno cominciato a rastrellare “risparmio” per prepararsi al boom!
Solo un caso “fortunato”, la bolla creatasi nei mercati finanziari, ha fatto sì che le imprese non si indebitassero ulteriormente. Gli alti rendimenti “garantiti” dal mercato finanziario, infatti, hanno reso estremamente difficile il “rastrellamento” del risparmio per le imprese. Quella bolla ha poi provocato danni gravissimi al sistema finanziario e innescato la crisi del 2008, ma quei danni sono nulla se confrontati a ciò che sarebbe potuto accadere laddove le imprese avessero avuto successo nel raccogliere risparmio!
Ma non disperate, la crisi vera e propria è stata rimandata solo di poco. Le istituzioni federali americane, nella loro immensa saggezza (o, per dirla ancora con Hayek, nella loro “presunzione fatale”), non se ne sono state con le mani in mano. Ancora una volta, hanno prontamente “supplito” alle “carenze” manifestate dai mercati. Cosa chiedevano le imprese, moneta? E moneta hanno avuto. Moneta creata rigorosamente a debito, ovviamente.
Adesso, con la ripresa in grande stile di una crisi che si diceva estinta o prossima ad estinguersi, stiamo solo gustando i primi frutti del paradigma keynesiano, che ha prontamente sostituito quello monetarista (la follia sa dotarsi di abiti adatti per ogni stagione), ma teniamoci pronti per il grande raccolto e, soprattutto, prepariamoci a prestare orecchio a quanti torneranno a ripeterci che “la colpa è del neo-liberismo”.
Mimmo Forleo