LA GIUSTIZIA E’ UGUALE PER TUTTI …“quelli che se la possono permettere”
8 Febbraio 2013di Cleto IAFRATE
La giustizia diventa sempre più cara e quindi inaccessibile ai meno abbienti. Da qualche giorno, infatti, è diventato più costoso ricorrere avverso un atto nel processo civile e nei giudizi amministrativi. Dal 30 gennaio sono operativi i nuovi rincari del contributo unificato. Si tratta di una tassa che il cittadino deve pagare allo Stato per accedere alla giustizia.
Gli aumenti vanno dal 20% – per i riti abbreviati di cui al Titolo V, Libro IV del Codice del Processo Amministrativo – fino addirittura al 50% – per le impugnazione di cui al comma 6-bis dell’ articolo 13 del DPR 115/2002.
Per esempio, se la causa riguarda l’impugnazione di un atto della Pubblica amministrazione in materia di affidamento di lavori pubblici – con valore fino a 200.000 euro – il costo della giustizia sarebbe di 8.000 euro qualora il ricorrente appellasse la sentenza del Tar dinanzi al Consiglio di Stato e soccombesse anche in questo grado. Sommando il totale delle spese legali per il primo e secondo grado di giudizio, il ricorrente rischia di pagare circa 20.000 euro. Ritengo che in materia di lavori pubblici un costo della giustizia pari a circa il 10% del valore dell’appalto non aiuti a combattere la corruzione, poiché induce al seguente ragionamento-tentazione: <<Se, in caso di mancata assegnazione, per avere giustizia – che, probabilmente, avrò tra 10 anni – dovrò pagare il 10% del valore dell’appalto, tanto vale pagarlo subito per avere l’appalto!>>
Le conseguenze del ragionamento, ovviamente, ricadono sull’ignaro contribuente, in termini di maggiori imposte dovute al costo della corruzione. La giustizia, sopratutto in materia di appalti pubblici, dovrebbe essere molto celere ed avere un accesso privo di barriere.
Il rincaro che a me desta le maggiori perplessità, però, è quello stabilito per accedere al Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il cui contributo unificato, che è stato introdotto solo un anno fa, è passato da 600 a 650 euro.
Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, fino allo scorso anno, era definito “il ricorso dei poveri”, in quanto nato proprio allo scopo di consentire l’accesso alla tutela legale anche ai cittadini con ridotte capacità economiche.
Questo rimedio di giustizia vanta origini antichissime: risale ai tempi delle monarchie assolute, quando il sovrano aveva il potere di decidere in ultima istanza sugli atti che erano ritenuti illegittimi.
Nel 1729, durante il Regno di Sardegna, questo tipo di ricorso fu formalmente disciplinato, per la prima volta, nelle Costituzioni Generali di Vittorio Amedeo II. Nel 1749, con l’ascesa al trono di Carlo Emanuele III, venne istituito il Consiglio del Re e si stabilì che il Re poteva ascoltare il parere, non vincolante, di detto Consiglio prima di decidere il ricorso a lui indirizzato.
Il rimedio straordinario rischiò per la prima volta, nel 1889, di venir espunto dall’ordinamento quando, con la legge n. 5992, venne istituita la IV Sezione del Consiglio di Stato; per questo motivo si pensò di sopprimere l’antico istituto del ricorso al Re, ritenuto, a quel momento, un inutile duplicato. Fortunatamente, prevalsero le voci contrarie e l’istituto venne mantenuto.
Il ricorso straordinario corse un secondo rischio di estromissione nel 1907, allorquando si discusse della proposta della sua soppressione. In quella occasione, Giolitti affermò: <<QUESTA SOPPRESSIONE, A MIO AVVISO, NON SAREBBE UNA COSA BUONA. IL RICORSO STRAORDINARIO AL RE COSTITUISCE UNA GIUSTIZIA GRATUITA, GIACCHE’ ESSA NON COSTA CHE IL FOGLIO DI CARTA PER RICORRERE AL GOVERNO>> (Camera dei deputati, Legisl. XXII, I Sess. Disc., Tornata 1° marzo1907, vol. 233, 4956).
Oggi quel foglio di carta costa almeno 650 euro, a chi è capace di compilarselo! Altrimenti molto di più.
La stessa Corte Costituzionale, circa un secolo più tardi, ha definito il ricorso “rimedio straordinario contro eventuali illegittimità di atti amministrativi definitivi, che i singoli interessati possono evitare con modica spesa, senza bisogno dell’assistenza tecnico-legale e con il beneficio di tempi di presentazione del ricorso particolarmente ampi” (Corte Cost., 19 dicembre 1986, n. 286; ord. 13 marzo 2001, n. 56).
La previsione, anche per questo tipo di ricorso, di una gabella che ora è passata a ben 650 euro ha l’effetto di tenere gli indigenti lontano da qualsiasi tutela legale e di creare una giustizia diseguale e classista.
E’ possibile che la “democrazia” evoluta del terzo millennio sia stata capace di sopprimere un diritto che risale addirittura ai tempi delle monarchie assolute?
«Se, in caso di mancata assegnazione, per avere giustizia – che, probabilmente, avrò tra 10 anni – dovrò pagare il 10% del valore dell’appalto, tanto vale pagarlo subito per avere l’appalto!»
Chissà perché, credo che allo stesso tipo di conclusione, quella cioè riguardante la possibilità che un qualsiasi imprenditore arrivi a fare il ragionamento descritto, siano giunti anche i politici. Per evitare di risultare eccessivamente malizioso, però, tengo per me quanto è oggetto del mio credo e avanzo un’altra ipotesi: rendendo più costoso l’atto di impugnazione, i politici si sono di fatto “assicurati” la non perseguibilità penale in caso di malefatte.
Detto questo, dico qualcosa anche sul “ricorso dei poveri”. Oggettivamente, con la democrazia la sovranità non appartiene più a un singolo (il re sovrano) ma si dice che apparterrebbe al “popolo”, appare dunque anacronistico mantenere in vita un “rimedio” che attribuiva superiori qualità di giudizio al re, in quanto la sua sovranità era diretta emanazione di un potere divino. Ve lo immaginate Napolitano mentre sostiene di essere l’oracolo divino? Oddio! (giusto per restare in tema), tutto può essere dopo che un comunista si è detto convertito ai valori della democrazia liberale, ma la possibilità che dica anche di essere stato ispirato da un dio appare francamente eccessiva!
Voglio infine concludere facendo notare un paio di cosucce: la prima, qualsiasi cittadino, messo di fronte allo strapotere economico dello Stato e al suo monopolio circa la violenza, appare un non-abbiente; quindi, l’avvertenza posta nel titolo e riguardante il rischio che la giustizia possa trasformarsi in strumento di classe, andrebbe meglio circostanziata.
La seconda, il fatto che per la giustizia, oltre al “normale contributo” versato attraverso la fiscalità generale, si richieda pure un contributo equivalente al pagamento di una prestazione che non è possibile richiedere a un soggetto diverso dallo Stato, la dice lunga su quanto sia fallimentare l’idea che determinati servizi possano essere resi oggetti di monopolio, e anche su quanto sia ormai prossimo al fallimento il soggetto monopolizzatore.
Mimmo Forleo