L’Abc dell’economia – La Scuola Austriaca (1)
27 Giugno 2010Secondo alcuni sarei un “tuttologo”; secondo me sono loro ad essere distratti e, si sa, la distrazione comporta sempre qualche imprecisione. Fossero meno distratti, infatti, si sarebbero accorti da tempo che tratto esclusivamente e sempre gli stessi temi: la politica, l’economia, la storia, la filosofia. Giusto ogni tanto mi concedo qualche “irruzione” nella letteratura, nella musica e nel cinema. Ho imparato a leggere all’età di tre anni e da allora avrò “accumulato” qualche migliaio di libri, oltre che di letture. Saranno serviti a qualcosa, oppure no?
Ma bando alle ciance e passiamo a trattare qualcosa di cui, credo, c’è forte bisogno in questo momento storico: un minimo di cultura economica. Lo farò, come mio solito, limitando al massimo i miei personali pareri e dando voce a chi è unanimemente considerato non proprio l’ultimo arrivato nel campo: Ludwig von Mises. A farci da anfitrione d’eccezione Murray N. Rothbard.
I brani che vado a presentare sono delle estrapolazioni tratte da “The Essential von Mises” disponibile, per una consultazione integrale, al seguente indirizzo: www.usemlab.com
In questa prima parte sarà trattato il “paradosso del valore”, si introddurrà l’argomento relativo all’errata separazione tra “produzione” e “distribuzione” (che sarà argomento della seconda) e verrà accennata la “legge dell’utilità marginale decrescente”. Non lasciatevi impressionere dai nomi, si tratta di concetti tutto sommato semplici da comprendere.
[…] Nella seconda metà del diciannovesimo secolo era già evidente come l’”economia classica”, che aveva raggiunto il proprio apogeo in Inghilterra grazie a David Ricardo e John Stuart Mill, avesse posto le proprie basi su consistenti difetti strutturali. Il punto debole della teoria classica consisteva nell’avere cercato di studiare l’economia in termini di “categorie” piuttosto che di azioni degli individui. Di conseguenza, gli economisti classici non solo non riuscivano a spiegare correttamente le forze sottostanti che determinano i valori e i relativi prezzi dei beni e servizi, essi non riuscivano neanche a capire le azioni dei consumatori che, in economia, sono di importanza cruciale per le attività dei produttori. Per esempio, considerando le “categorie” dei beni, gli economisti classici non riuscivano a risolvere il “paradosso del valore”: il pane, estremamente utile e fondamentale per gli esseri umani, aveva un basso valore di mercato mentre i diamanti, un bene di lusso, ovvero un bene del tutto irrilevante in termini di sopravvivenza, avevano un alto valore di mercato. Se il pane è senza alcuna ombra di dubbio più utile dei diamanti, perché esso trova sul mercato un valore molto più basso?
Disperati nel cercare di risolvere questo paradosso, gli economisti classici, purtroppo, crearono due categorie di valore: il “valore di utilizzo” e il “valore di scambio”. Così il pane, con un più alto valore di utilizzo rispetto ai diamanti aveva, per qualche ragione non molto chiara, un più basso valore di scambio. Fu proprio a causa di questa divisione che le generazioni successive cominciarono a denunciare l’economia di mercato, colpevole di indirizzare le proprie risorse verso la “produzione per il profitto” anziché verso la ben più vantaggiosa “produzione per l’uso”.
Fallendo nel tentativo di analizzare le azioni dei consumatori, gli economisti anteriori agli Austriaci non riuscirono a spiegare in modo soddisfacente cosa in realtà determinasse i prezzi di mercato. Andarono a tentoni e purtroppo conclusero che: (a) il valore era qualcosa di intrinseco nelle materie prime; (b) il valore doveva essere conferito a questi beni dai processi di produzione; (c) l’aggiunta finale di valore era costituita dal “costo” di produzione o addirittura dalla quantità di ore lavorative necessarie per quella determinata produzione.
Fu questa analisi Ricardiana che preparò il terreno alla conclusione perfettamente logica di Karl Marx: dato che il valore era il prodotto della quantità di ore lavorative, allora tutti gli interessi e i profitti ottenuti dai capitalisti e dai datori di lavoro dovevano essere un “surplus di valore” ingiustamente sottratto ai reali guadagni degli operai.
[…] Gli economisti classici non riuscivano a dare una spiegazione soddisfacente o una giustificazione all’esistenza del profitto. Ancora una volta, trattando la questione del profitto generato dalla produzione solo in termini di “categorie”, i Ricardiani riuscivano a vedere solo una continua “lotta di classe” tra “salari”, “profitti” e “affitti”, con i lavoratori, i capitalisti e i padroni eternamente in lotta per la propria quota di utili. Ragionando solo in termini di aggregati, i Ricardiani separarono erroneamente le questioni relative alla “produzione” da quelle relative alla “distribuzione”, con quest’ultima al centro del conflitto della lotta di classe. Dovettero per forza concludere che se i salari aumentavano ciò poteva solo avvenire a spese di profitti e di affitti inferiori, o viceversa. Ancora una volta i Ricardiani diedero manforte alle teorie marxiste.
[…] E’ accaduto spesso nella storia dell’umanità che scoperte simili venissero fatte da uomini in luoghi e condizioni completamente differenti, nello stesso momento e in modo indipendente. Così la soluzione ai suddetti paradossi, emerse, in modo indipendente e in forme diverse, nello stesso anno 1871 ad opera di William Stanley Jevons in Inghilterra, Leon Walras a Losanna, in Svizzera, e Carl Menger a Vienna. In quell’anno nacque l’economia moderna o “neoclassica”.
[…] Il lavoro pionieristico di Menger aprì la strada al suo più brillante studente, e successore, all’Università di Vienna, Eugen von Böhm-Bawerk. Fu il monumentale lavoro di Böhm-Bawerk in gran parte scritto nel 1880 e culminato con i tre volumi di Capital and Interest, che formò la base strutturale della Scuola Austriaca. Altri grandi economisti contribuirono alla maturazione della Scuola Austriaca negli ultimi venti anni del diciannovesimo secolo, tuttavia Böhm-Bawerk li sovrastò tutti.
Le soluzioni Austriache, sia di Menger che di Böhm-Bawerk, ai dilemmi dell’economia, risultarono molto più esaustive di quelle dei Ricardiani, in quanto fondate su una epistemologia completamente diversa. Gli Austriaci centrarono le loro analisi sull’individuo, ovvero sulle azioni individuali che di volta in volta spingono a scelte basate sulle proprie preferenze e sui valori del mondo reale. Partendo dall’individuo, gli Austriaci furono capaci di ancorare le loro analisi sull’attività economica e produttiva ai valori e ai desideri dei consumatori individuali. Ciascun consumatore operava in modo autonomo secondo la propria scala di preferenze e di valori; questi ultimi interagivano e si combinavano per formare la domanda dei consumatori che costituisce la base e la direzione di tutta l’attività produttiva. Fondando le loro analisi sullo studio dell’individuo nel momento in cui interagisce con il mondo reale, gli Austriaci realizzarono che l’attività produttiva si basava sulle aspettative di soddisfare le richieste dei consumatori.
Dunque, divenne ben presto chiaro agli Austriaci che nessuna attività produttiva, sia artigianale che industriale, era in grado di conferire valore ai beni e servizi. Il valore derivava invece dalla valutazione soggettiva dei consumatori individuali. In breve, si potrebbero spendere trent’anni a costruire un enorme triciclo a vapore. Se, però, non si riuscisse a trovare neanche un consumatore disposto a comprare questo triciclo, esso sarebbe economicamente privo di valore, nonostante tutti gli sforzi fatti per costruirlo. Il valore è una valutazione fatta dal consumatore e i relativi prezzi dei beni e servizi sono determinati dalla portata e intensità sia delle valutazioni che dei desideri dei consumatori nei riguardi dei prodotti medesimi.
Considerando l’individuo anziché le “categorie”, gli Austriaci riuscirono facilmente a risolvere il “paradosso del valore” che aveva paralizzato gli economisti classici. Sul mercato nessun individuo ha mai dovuto affrontare la scelta tra il “pane” e i “diamanti” considerati come classi di oggetti. Gli Austriaci avevano mostrato che maggiore è la quantità (come numero di unità) di un bene che si possiede, minore è la valutazione che a quella unità viene data. Un uomo in mezzo al deserto, dove c’è scarsità di acqua, assegnerà un valore di “utilità” estremamente alto ad un bicchiere di acqua, mentre, lo stesso uomo a Vienna o a New York, con a disposizione un’abbondante quantità di acqua, assegnerà un valore di “utilità” estremamente basso ad ogni bicchiere. Dunque il prezzo che pagherà per un bicchiere d’acqua nel deserto sarà molto maggiore rispetto a quello pagato a New York. In breve, l’individuo agisce in termini di specifiche unità o “margini”; la scoperta degli Austriaci venne definita “legge dell’utilità marginale decrescente”. Il “pane” è molto più economico dei “diamanti” poiché la quantità di pane disponibile è considerevolmente maggiore rispetto alla quantità di carati di diamanti, quindi il valore e il prezzo di ogni pagnotta sarà molto minore rispetto al valore e al prezzo di ciascun carato. Non c’è nessuna contraddizione tra “valore di utilizzo” e “valore di scambio”; data l’abbondanza di pane disponibile, per l’individuo una pagnotta è meno “utile” di un carato di diamante.
Mimmo Forleo