Le “conquiste” in effetti sono perdite, di posti di lavoro
3 Aprile 2013Un posto di lavoro è un “diritto umano”?
di Richard A. Epstein
Il tentativo di eliminare presunte discriminazioni nel mercato del lavoro può solo distruggere occupazione e soffocare la crescita economica
Le odierne tendenze in campo economico non sono incoraggianti. Negli Stati Uniti, nell’Unione europea e in Giappone le tetre prospettive di crescita inducono troppo spesso ad adottare provvedimenti disperati, che possono solo peggiorare la situazione. Innumerevoli voci si levano per lamentare il fatto che l’austerità non riesce a spronare la crescita o per muovere veementi attacchi alla sconsideratezza di una spesa pubblica senza freni che farà affondare il paese sotto il peso del debito. Che alternative orribili!
Il dibattito in merito a quale debba essere il livello più giusto di spesa pubblica e tassazione è di per sé un’importante causa del malessere economico che stiamo attraversando. L’attuale incertezza sull’uso di questi fondamentali strumenti di politica economica fa a sua volta aumentare l’incertezza sulla possibilità di un incremento dei tassi di interesse che farebbe affondare l’economia. Una valuta instabile inserisce del tutto gratuitamente un elemento di incertezza in ogni transazione privata espressa in dollari. Tale incertezza rappresenta un costo per entrambe le parti di ogni transazione commerciale. Quando i costi di transazione superano i guadagni previsti dallo scambio, la transazione non viene conclusa.
Per fare un esempio, supponiamo che S possieda qualcosa alla quale attribuisce un valore di 10 dollari e che B valuta invece a 15 dollari. Trasferendo questo bene a B, una transazione volontaria tra i due, la cui conclusione non comporti alcun costo, produrrebbe un guadagno di 5 dollari.
Il modello contraddistinto da costi di transazione nulli può certamente essere considerato un mito, ma le sue implicazioni sono decisamente pratiche: nell’esempio che abbiamo fatto, purché i costi di transazione rimangano inferiori a 5 dollari, lo scambio viene concluso. Ovviamente, quando i costi superano quel livello, l’esito è diverso. La costante incertezza in merito a tasse e normative rappresenta un costo di transazione che scoraggia gli scambi e non produce alcun beneficio collaterale. Finché la politica macroeconomica continuerà a cercare ossessivamente di muovere contemporaneamente tutte le leve in direzioni diverse, agirà da freno ai mercati. La stabilità delle aspettative rappresenta un elemento-chiave di un robusto mercato macroeconomico.
Una follia microeconomica in materia di impiego
Gli stessi errori vengono commessi attualmente nel mercato del lavoro, contribuendo in modo significativo ad aumentare un tasso di disoccupazione già elevato. La mentalità dominante (ed erronea) è perfettamente illustrata in una lettera di Risa Kaufman, che dirige il Columbia Law School Human Rights Institute, nella quale ella afferma che «il fatto che gli Stati Uniti non abbiano saputo promulgare adeguate tutele che permettano ai lavoratori di conciliare le esigenze del lavoro e della famiglia fa sì che il nostro Paese non solo sia più arretrato di altre nazioni, ma vada contro le norme internazionali sui diritti umani”.
Questa “mancanza” dovrebbe farci tirare un sospiro di sollievo: per quanto il livello dell’occupazione negli Stati Uniti sia insoddisfacente, esso sarebbe ben peggiore se ci ponessimo al passo con quegli sconsiderati Paesi attualmente contraddistinti da tassi di disoccupazione che raggiungono (o superano, come nel caso della Spagna) il 25 per cento, proprio perché cercano di garantire questa schiera di tutele del posto di lavoro per via legislativa.
Certamente un datore di lavoro innovativo potrebbe adottare qualche tipo di tutela dei lavoratori, in modo da mantenere nella forza lavoro le dipendenti più capaci, ad esempio sotto forma di contributi all’assistenza dei figli, orario flessibile o posizioni lavorative condivise. Tuttavia che un determinato datore di lavoro adotti tali politiche è una cosa. Ben altro sarebbe se le autorità politiche esercitassero il loro peso per imporre queste misure a quei datori di lavoro che non ritengono che i loro presunti benefici siano compatibili con gli interessi della propria impresa.
In questi casi, il fatto stesso che i datori di lavoro non abbiano offerto tali tutele è una prova pressoché conclusiva che il loro costo è superiore al guadagno per il dipendente. In caso contrario, esse verrebbero tranquillamente offerte, come avviene per le migliaia di gratifiche e benefici accessori che i singoli datori di lavoro concedono ai dipendenti o a una parte di loro. Quale altra ragione diversa dalla richiesta di mercato potrebbe spiegare il motivo che induce tanti datori di lavoro a offrire pacchetti di benefici accessori che vanno ben oltre i minimi internazionali o le leggi locali?
La situazione si inverte quando tali pacchetti sono imposti per legge. A questo punto, le imprese si suddividono in due categorie. Quelle che avrebbero offerto comunque i benefici in questione e continueranno a farlo, ma con minore efficienza, in quanto perderanno ogni possibilità di auto-correggere gli errori e incorreranno nei costi (spesso onerosi) di verifica della conformità al fine di superare i controlli invasivi dei regolatori pubblici. Al crescere di tali costi i salari non potranno che ridursi e le due controparti saranno lasciate allo sgradevole compito di dividersi una torta più piccola, per poter attuare quelli che la Kaufman definisce le «norme ampiamente condivise sui diritti umani».
La seconda situazione è peggiore, in quanto a questo punto la perdita imposta dalle autorità supera i guadagni che il lavoratore e il datore di lavoro speravano di ottenere nel mercato del lavoro. Per tale motivo la transazione originaria viene soppressa e un’altra persona va ad aggiungersi ai ranghi dei disoccupati in base alla conclusione – apparentemente morale – che non avere alcun lavoro, sia pure con la promessa di maggiori benefici in caso di occupazione, sia da preferirsi all’eventualità di avere un posto di lavoro con un pacchetto di benefici più esiguo.
Quale teoria dei diritti umani ritiene che distruggere posti di lavoro al fine di soddisfare un ideale nobile e astratto sia un imperativo morale?
Congedi familiari e di maternità retribuiti
Una delle cause che stanno più a cuore ai paladini dei diritti umani sono i congedi familiari e di maternità pagati dal datore di lavoro. In un articolo pubblicato sul New York Times la professoressa Stephanie Koontz si chiede con tono sprezzante perché, cinquant’anni dopo la pubblicazione de La mistica della femminilità di Betty Friedan, gli Stati Uniti – al pari di Paesi quali Suriname, Liberia e isole Tonga – sia l’unico tra i paesi sviluppati a continuare a negare il congedo di maternità pagato alle madri.
Analogamente, anche il movimento per imporre il pagamento del congedo per malattia, come riporta Melanie Trottman sul Wall Street Journal, ha raccolto crescenti consensi, specialmente dopo i recenti focolai di influenza in svariate città e stati americani. Circa il 40 per cento dei dipendenti privati non gode di questo beneficio.
Queste spinte al cambiamento ignorano le differenze che esistono tra le diverse imprese: differenze che rendono l’adozione di congedi pagati una decisione poco saggia per alcune di esse, anche quando tali misure hanno perfettamente senso per altre. Ciò nonostante, l’obiezione secondo la quale “queste leggi pesano sulle aziende e in ultima analisi vanno a svantaggio dei lavoratori” viene solitamente accolta con incredulità. I recenti dati desunti dall’esperienza del Connecticut indicano che, quando le imprese aventi più di cinquanta dipendenti hanno l’obbligo di concedere ai dipendenti il congedo per malattia (fino a cinque giorni l’anno, pari a un’ora ogni 40 ore lavorative), si perdono posti di lavoro.
Tuttavia nessuna di queste considerazioni sembra riuscire a fermare la corsa verso il disastro. Dopo tutto, basta scrollare le spalle e dichiarare che i datori di lavoro dovranno riconsiderare la propria situazione finanziaria, senza pensare che ciò potrebbe avvenire riducendo i salari o rifiutando di accrescere la propria forza lavoro.
La discriminazione a danno dei disoccupati
Il senso di frustrazione prodotto dal persistere di elevati livelli di disoccupazione ha dato vita ad un’altra crociata per via legislativa: la proibizione ai datori di lavoro di discriminare a danno dei disoccupati tra i candidati ad ottenere un impiego. Leggi di questo tenore sono già in vigore in New Jersey, Oregon e nel distretto di Washington DC. I sostenitori di queste leggi si appellano a svariati aneddoti relativi a persone che non hanno avuto fortuna nella ricerca di un lavoro in un’economia in difficoltà. Ovviamente molti di questi aneddoti sono veritieri, ma questo significa solo che essere disoccupati è, al massimo, un proxy imperfetto per capire se un candidato a un posto di lavoro ha competenze datate o una mentalità inadeguata.
Nonostante ciò leggi di questo tipo, così come le proposte attualmente avanzate nel Congresso, non possono far nulla per affrontare il problema dell’alto tasso di disoccupazione. Finché il numero di posti di lavoro rimarrà costante, il meglio che può accadere è che un disoccupato possa ottenere un determinato impiego solo escludendo un’altra persona dal lavoro. È verosimile che questa nuova serie di protezioni per i disoccupati riesca solo a ridurre il numero di posti disponibili, se i datori di lavoro smetteranno di cercare dipendenti per timore di una nuova fonte di possibili oneri legali.
I difensori di questa nuova via potrebbero rammentare che l’ambito della legge del New Jersey è stato limitato dall’intervento del governatore, Chris Christie. Oggi sembra che tale legge si applichi solo ai casi in cui i possibili datori di lavoro dichiarino esplicitamente che i disoccupati sono esclusi dai candidati, ed escludendo comunque i casi in cui il datore di lavoro voglia effettuare promozioni interne alla propria azienda.
Ciò nondimeno la situazione è peggiorata rispetto al passato. Prendiamo la legge del New Jersey così com’è attualmente formulata: oggi ciascun imprenditore deve verificare che le sue offerte di lavoro siano conformi alla legge e rischiare di dover rispondere agli ispettori statali delle sue pratiche di assunzione e di casi particolari.
Quando la situazione non produce alcun miglioramento, i difensori di queste leggi replicano affermando che devono essere adottate sanzioni più rigorose. In effetti, questo è avvenuto nel District of Columbia, dove la legge dichiara che “Nessun datore di lavoro o agenzia di lavoro temporaneo potrà rifiutarsi di prendere in considerazione o assumere un candidato solo perché questi è disoccupato”.
Anche in questo caso non vi sono state azioni legali, ma oggi l’ambito dell’indagine si è ampliato, in conseguenza di una serie di norme redatte dal sindaco di Washington, destinate a entrare a meno che non vengano cassate dal Consiglio del District of Columbia. A questo punto l’ambito dell’autorità amministrativa verrebbe necessariamente ampliato, giacché qualsiasi disoccupato che sia stato scartato ad un colloquio di lavoro potrà dichiarare – qualora il potenziale datore di lavoro fosse a conoscenza della sua condizione – di essere stato vittima di discriminazione. Non è possibile ignorare la possibilità che, sulla base di una sola azione legale, un imprenditore possa essere accusato di svariate violazioni della legge e questo in un momento in cui, nonostante l’enorme aumento di posti nelle amministrazioni pubbliche, il tasso di disoccupazione di Washington DC rimane al livello dell’8,6 per cento.
A questo punto è importante esaminare l’enorme divario tra il discutibile amore per l’uguaglianza che contraddistingue i difensori della cosiddetta legislazione per i diritti umani e la questione della crescita economica. Per ogni lavoratore amareggiato esiste un datore di lavoro altrettanto amareggiato per aver dovuto chiudere o contrarre le proprie attività a causa di queste normative. Per capire perché l’equità non generi crescita, è importante prendere in considerazione il quadro generale. Una legislazione del lavoro intrusiva aumenta le fila dei disoccupati, accrescendo la pressione sull’assistenza pubblica. I legislatori e gli attivisti che spingono per adottare maggiori tutele per i lavoratori non fanno altro che acuire quelle stesse condizioni che vorrebbero eliminare.
Quello che politici e attivisti devono tenere in considerazione è che la retorica non potrà mai eliminare il fatto che gli imprenditori privati rispondono agli incentivi in modo razionale e prevedibile. Né il Congresso, né i governi degli stati possono abrogare la legge delle conseguenze non intenzionali. Ma finché i soggetti politici continueranno a mettere alla prova il destino, la spirale decrescente dell’economia continuerà ad aggravarsi mano a mano che sempre nuove norme soffocheranno la crescita. A meno che la nostra politica nazionale non si impronti alla deregolamentazione, nel mercato del lavoro e in altri settori, il nostro panorama economico sarà dominato da stagnazione e inerzia.
Da Defining Ideas, 26 febbraio 2013
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