Negare l’evidenza
12 Luglio 2010Un mini-saggio, da leggere, rileggere e all’occorrenza mandare a memoria, sulla crisi in Italia: spiega benissimo perché la nostra crisi è “differente”, perché non è affatto vero che la si possa considerare ormai “alle spalle”, perché i dati sulla “crescita” siano assolutamente apparenti e infine perché quelli sulla disoccupazione assolutamente farlocchi.
Noi ne usciremo meglio degli altri, così come si ostina a ripetere l’imbonitore che abbiamo al governo? Del tutto improbabile.
Crisi, chi nega l’evidenza
Sunday, 11 July, 2010
di Mario Seminerio – Il Fatto Quotidiano
Nel nostro paese esiste una mistica dell’ottimismo sullo stato dell’economia che va ben oltre il diritto ed il dovere di un esecutivo a trasmettere messaggi positivi sulla congiuntura, ovviamente dopo aver assunto e motivato le proprie scelte di policy ed aver ottenuto riscontri che la direzione intrapresa è quella corretta. In Italia, dall’inizio di questa crisi infinita, esiste invece un obbligo di ottimismo a oltranza (e oltranzista), trasmesso attraverso alcuni mantra fattualmente fallaci, ed amplificato da organi di informazione dimostratisi incapaci (per dolo o pura ignoranza) a cogliere il reale stato della congiuntura.
Qualche giorno fa l’Istat ha comunicato che, nel 2009, il nostro paese ha registrato un crollo degli investimenti, pari al 12,1 per cento, con punte del 14,9 per cento per il settore industriale. Non c’è nessuna “crisi alle spalle”: la crisi è qui, non si è mai allontanata, ma è mutata. Abbiamo avuto una fase di mini-rimbalzo, soprattutto dell’attività manifatturiera, legato sia al vigore delle economie emergenti (segnatamente la Cina), sia ad alcune iniziative di anticipazione della domanda futura per alcuni beni durevoli di consumo, come le auto, che hanno goduto di ampi e diffusi incentivi. Oggi, per contro, abbiamo diffusi timori di un nuovo rallentamento, indotti sia dal venir meno dello stimolo statunitense (che nel secondo semestre dovrebbe sottrarre crescita, per effetto-confronto col recente passato), sia per alcune evidenze di rallentamento della locomotiva cinese, che necessita di riconvertirsi dalle esportazioni alla domanda interna, ma che ha comunque ampi eccessi di capacità produttiva in molti settori.
Ebbene, l’intera evoluzione della crisi è stata finora gestita dall’esecutivo secondo una strategia di comunicazione che miscela l’ottimismo con la minimizzazione, l’enfasi su dati assai poco leggibili ed altrettanto poco robusti come capacità previsiva e lo spostamento dello spin mediatico su temi diversi dall’economia, come la sicurezza e l’immigrazione. Né manca il tentativo di intestarsi politicamente quelli che sono tratti culturali delle famiglie italiane (come la propensione al risparmio), non il frutto di azioni di governo. Due anni addietro, il premier amava dire che avevamo di fronte soprattutto una crisi “psicologica”, che il nostro paese era esterno ed estraneo all’epicentro dei mutui subprime e dell’eccesso di indebitamento. E’ vera la seconda parte della proposizione, non certo la prima: a fronte di una crisi di proporzioni epocali nessun paese è un’isola: esiste una cosa chiamata moltiplicatore del commercio estero che ci riguarda tutti, e trasmette crisi e crescita allo stesso modo. Gli italiani non consumano per timore, dicevano esponenti di governo e maggioranza. In realtà, gli italiani non consumano per progressiva riduzione di risparmio e reddito disponibile e per crescenti timori legati al terzo maggior debito pubblico del pianeta. Possiamo dar loro torto?
Poi venne la polemica con le banche: non accettano i Tremonti bond, che ci farebbero ripartire l’economia, si disse. Non era vero, naturalmente: le banche stringevano il credito per timori legati all’evoluzione della crisi ed all’incertezza circa la reale situazione dei bilanci. Insomma, una crisi à la carte, compare e scompare in funzione della prova di forza politica di turno. Poi è stata la volta della finzione sul tasso di disoccupazione “più basso della media europea”. Neppure questo è vero, perché il dato non considera che l’Italia ha un tasso di partecipazione alla forza lavoro che è di nove punti inferiore alla media europea, circostanza che di per sé tende a frenare l’ascesa del tasso di disoccupazione. Ma soprattutto, nel dato non si considera il numero di cassintegrati, spesso in aziende clinicamente morte o con organici comunque sovradimensionati.
Oggi, lentamente ma inesorabilmente, emerge la verità: la crisi ci ha colpito quanto e più degli altri. Nel 2008 eravamo l’unico paese sviluppato Ocse (con il Giappone) ad essere in recessione prima che la crisi esplodesse, per eccesso di pressione fiscale (soprattutto sul lavoro). Nel 2009 siamo stati tra quanti hanno subito la maggiore contrazione del Pil, ma tutto è stato silenziato. Poi sono arrivati gli strafalcioni da matita blu. Quelli che portano i giornali a scrivere, a fronte di una crescita annuale della produzione industriale del 6,9 per cento, che siamo di fronte ad un “boom”, omettendo tuttavia che un progresso del 6,9 per cento su un indice di produzione che in precedenza si era ridotto del 30 per cento è il nulla, o quasi. Nessun riferimento alla perdita di cento trimestri di produzione industriale dall’inizio della crisi, e di 34 trimestri di Pil, come risulta da un paper della Banca d’Italia.
Oggi, in attesa degli eventi, siamo ancora allo stesso copione: noi ne usciremo meglio di altri, e comunque abbiamo un premier che salva il mondo, all’occorrenza. Chissà perché, non c’è motivo per sentirsi rassicurati.
(da Il Fatto Quotidiano del 10 luglio 2010)