No. Non sono qui per parlare di gay…
30 Dicembre 2013La vignetta che fa da copertina al presente post è parte integrante di una discussione nata e sviluppatasi sul profilo FB “Tarasco sindaco”. Quella discussione ha totalizzato la bellezza di 144 commenti, finora, ma ha saputo anche travalicare gli angusti confini – numericamente e culturalmente parlando – di detto profilo e si è estesa ad altri. Non saprei dirvi precisamente quanti ma, contando anche il mio, sono direttamente a conoscenza dell’esistenza di almeno quattro o cinque link che la riguardano.
Quasi dappertutto motivo del contendere sarebbe l’opportunità stessa di postare una vignetta simile: risulterebbe offensiva e retrograda, secondo alcuni; costituirebbe invece nient’altro che la prova che si è liberi di pensarla come meglio ci pare e di manifestare quel che pensiamo, secondo altri. Io sto con secondi, ma qui conta ben poco quel che penso e perché. A contare dev’essere qualcosa d’altro e sicuramente molto più significativo del mio parere personale: ne va di mezzo l’idea stessa che “abbiamo” della libertà.
In realtà, sono fermamente convinto che la libertà sia concetto senza diritto di cittadinanza in questo Paese. E il paradosso è dato dal fatto che questo stesso Paese, per bocca di quanti lo governano, si dice pronto ad offrire cittadinanza a chiunque ne faccia richiesta e possa almeno dimostrare di essere nato sul suo “sacro” suolo. Anche se risulta essere figlio di genitori che con questo Paese hanno poco o niente da spartire: in senso sia storico che culturale.
Fatte le dovute proporzioni, è come se una coppia di ospiti di una famiglia per tutto il periodo natalizio, dovesse poi accampare pretese di adozione presso la famiglia che li ospitava, solo perché incidentalmente il loro pargolo è venuto al mondo nell’abitazione della famiglia ospitante in detto periodo. A voi parrebbe normale una richiesta simile? Alla Kyenge e altri, si.
Lasciamo comunque da parte questi discorsi di geopolitica familiare e affrontiamo il cuore della questione rappresentata dalla vignetta in questione.
Secondo molti la vignetta non andava pubblicata perché 1) offensiva dei sentimenti di alcuni (le coppie omosessuali), 2) non sarebbe in linea con lo “spirito del nostro tempo” e 3) andrebbe a ledere i diritti riguardanti, scusate il gioco di parole, il diritto di metter su famiglia come meglio si crede.
Procediamo adesso nell’ordine poc’anzi stabilito e proviamo a mettere a nudo i pro e i contra di tali accuse. Considerato però che ad ogni atto di accusa corrisponde una precisa contro-accusa proveniente da quanti la pensano in maniera diametralmente opposta, anche di dette contro-accusa terremo debitamente conto.
L’offesa dei sentimenti. Delle tre accuse dette questa mi pare la più debole. Chiunque può e deve sentirsi libero di giudicare e manifestare pubblicamente e l’approvazione e la disapprovazione di un comportamento altrui. Tanto il giudizio quanto la sua pubblica esposizione non implicano alcuna offesa. L’offesa, per essere tale, deve infatti contenere l’atto materiale che usiamo definire col termine azione. Uno schiaffo diretto verso qualcuno e da questi ricevuto è configurabile come offesa, non la ventilata minaccia di un schiaffo che non sia seguito dall’atto concreto. Si dovesse seguire una logica diversa, dovremmo sentirci preventivamente autorizzati (da chi?) a reagire a qualcosa che non è mai avvenuto. Si realizzerebbe esattamente quanto viene raccomandato da una massima che si vuole sia cinese: “Schiaffeggia tua moglie! Tu non ne conosci il motivo, ma lei si.”
Ne consegue che l’unica reazione legittima a questo tipo di “offese”, da parte di chi senta di essere stato in qualche modo danneggiato, consiste nel manifestare altrettanto pubblicamente le proprie convinzioni. Nel caso in questione sarebbe bastato replicare con argomenti volti a smontare le tesi sostenute dalla parte avversa: non dovrebbe risultare difficile procurarsi degli studi attestanti che nessuna difformità è riscontrabile in bambini che vivono in un contesto omosessuale, piuttosto che in uno etero.
“Lo Spirito del nostro tempo”. Qui conviene chiarire preliminarmente un paio di cose. In realtà non esiste alcun “spirito del tempo”. Solo Hegel poteva arrivare a concepire un’assurdità simile, e per farlo dovette inventarsi una teoria prevedente lo sviluppo autonomo della Storia. Secondo Hegel, la Storia procede per conto suo e secondo tappe che sarebbero note solo ad Hegel stesso. L’assurdità di una tale posizione appare chiara qualora si consideri che la Storia potrebbe benissimo fare a meno degli uomini in questo suo procedere. Ma, venendo a mancare coloro i quali saprebbero “leggerlo” quel cammino, a che pro la Storia dovrebbe prendersi il disturbo di incamminarsi? E può definirsi Storia una storia che non procede?
La verità è che essendo gli uomini, organizzati in società, artefici del proprio destino, se proprio si vuole parlare di Spirito, andrebbero considerate e le Leggi “naturali” (quelle cioè che fanno rifiutare a chiunque, in via generale, taluni comportamenti, quali l’incesto o l’omicidio, per ragioni talmente ovvie che possiamo tranquillamente omettere di esplicitarle) e le leggi “positive” (quelle cioè stabilite dagli uomini mediante decreti, che tanto ovvie non sono e possono persino risultare del tutto errate).
Gli assertori, nel caso della vignetta, dello “Spirito del tempo” cadono in esplicita contraddizione allorquando chiedono, come hanno fatto, di far valere le leggi positive per condannare qualcosa che, secondo loro, andrebbe in direzione contraria a tale Spirito. Che bisogno c’è, infatti, di invocare l’applicazione di leggi positive se è sotto gli occhi di tutti il fatto che quelle stesse leggi sono talvolta apertamente schierate contro il supposto “Spirito del tempo”? Si pensi alla legge che in Italia regolamenta le unioni omosessuali. Essa attualmente è diretta a garantire certi diritti solo alle compagne o ai compagni dei nostri parlamentari. Chi ha postato la vignetta ha commesso forse solo un errore: avrebbe dovuto specificare che il messaggio in essa contenuta è volto a non incoraggiare le adozioni che potrebbero darsi tra coppie omosessuali nelle quali uno o entrambi gli attori siano parlamentari dello Stato italiano.
I diritti. I cosiddetti diritti costituiscono uno dei temi più dibattuti, ma anche più abusati, e meno compresi dell’epoca contemporanea. L’incomprensione, ancora una volta, nasce dall’incapacità di saper distinguere correttamente tra “natura” e “positività”. Un diritto, in realtà, per essere definito tale ha bisogno di essere autoevidente. Se invece non mostra tale caratteristica è solo una convenzione, e come ogni convenzione è suscettibile di apparire e scomparire, di restare immobile nella forma oppure di essere modificato. Potremmo anzi dire che più ancora dell’autoevidenza, per scorgere la quale c’è bisogno di un minimo di abitudine al ragionamento puramente astratto, sua caratteristica distintiva sia l’immutabilità congiunta alla permanenza. Nei discorsi comuni infatti accade sovente che almeno uno degli interlocutori faccia ricorso alla seguente frase: “È sempre stato così, sin dalla notte dei tempi”.
Vediamo però di capire meglio cosa sia l’autoevidenza, evitando così di far scadere anche il nostro discorso nella mera opinione non supportata da prove adeguate. Non costituisce infatti prova adeguata del fatto che “il Sole gira intorno alla Terra” l’argomento “così sembra essere da sempre”.
Diciamo allora che è autoevidente ogni affermazione capace di resistere a qualunque obiezione. Se io affermassi “sono l’unico padrone del mio corpo”, starei affermando un’autoevidenza anche nel malaugurato caso in cui fossi uno schiavo o qualcuno soggetto al rigore di una legge positiva. Anche da schiavo, nessun altra volontà potrebbe sostituirsi alla mia che comanda direttamente al mio braccio di eseguire un determinato movimento. Certo, il mio padrone potrebbe ordinarmi di far effettuare al mio braccio quel determinato movimento, ma in ultima istanza sarebbe ancora la mia volontà a comandare direttamente al mio braccio di eseguire l’ordine.
Da queste osservazioni, che possono sembrare puri sfizi mentali, ne deriva che solo io sono in possesso, anche da schiavo, dell’ultima parola intorno a quel che il mio corpo deve o non deve fare. Potrei infatti negare il mio consenso all’ordine impartitomi dal padrone pagandone amaramente le conseguenze, anche con la morte, ma affermerei comunque che “senza il mio consenso, nessuna parte di me risponde a qualcun altro”.
Chiarito l’aspetto dell’autoevidenza dei diritti, appare ora finalmente in tutta la sua tronfia grandezza il discorso sui “diritti” che autovedenti non sono. Potremmo stilare migliaia di documenti “ufficiali” e farli approvare da ogni tipo di assemblea immaginabile e non immaginabile, rimarrebbe comunque che dei “diritti” così proclamati rimarrebbero privi del requisito essenziale: l’autoevidenza. Provate pure a mettere in una costituzione, come sembra sia già stato fatto, il “diritto al lavoro” e poi verificate se sia sempre praticabile. Vi scontrerete immediatamente contro due tipi di realtà che potrebbero darvi torto e farvi sembrare dei perfetti imbecilli (anche se una massa in vena di adulazione vi avesse pomposamente definiti “Padri costituenti”. Padri sì, ma dell’arte di mettere per iscritto delle colossali minchiate prive di qualsiasi logica).
Quali sono queste due realtà? La prima è la seguente: immaginate di essere degli appassionati della caccia alle mosche e di voler rendere tale vostro diletto una professione. Fino a quando qualcuno non avrà inventato un insetticida potrebbe anche andarvi bene, e potreste chiedere un compenso a chiunque abbia in odio le mosche e non abbia tempo per dedicarsi alla loro caccia. Appena apparso l’inventore, però, la vostra professione smetterebbe di avere un senso e nessuna costituzione potrebbe mai restituirglielo.
La seconda realtà è data dal fatto che da tempo l’uomo ha scoperto i vantaggi che è in grado di procurare la divisione del lavoro. Tale divisione è stata spinta talmente avanti nel suo processo evolutivo da dare vita a delle vere e proprie differenziazioni qualitative nel mondo lavorativo. Oggi si usa infatti distinguere tra coloro che lo “comandano” (gli imprenditori) il lavoro e quanti lo “offrono” (i salariati e/o gli stipendiati). Va da sé che tanto la quantità di lavoro comandata che quella offerta sono soggette alla legge della domanda e dell’offerta, e che nessuna costituzione potrà mai stabilizzare definitivamente detta legge. Illudersi di poterlo fare può significare solo una cosa: mandare intere società al fallimento e rischiare di farle retrocedere allo stato di mera sussistenza. Stato ancora osservabile in alcune poche tribù sparse sull’intero pianeta.
Volendo concludere il discorso sui diritti, o per meglio dire sui presunti diritti così come sono stati affrontati nella discussione resa oggetto di questo post, possiamo solo dire, a questo punto, che nessuna legge positiva potrà mai impedire a qualcuno di pensare qualcosa di sgradito a qualcun altro, e che l’unico metro dirimente in questa contesa è costituito dall’atto concreto di offesa. Avendo ben presente però, come si diceva all’inizio, che un’offesa è tale solo se si traduce in un’azione in grado di recare danno quantificabile alla vittima. In altre parole, si è realmente vittime di un’offesa solo a condizione che sia dimostrabile che l’atto intrapreso da qualcuno nei confronti della presunta vittima abbia privato questa di un suo diritto autoevidente e che non vada soggetto a tante valutazioni quante possono essere le persone che popolano questo sfortunato e irrazionale pianeta chiamato Terra.
Mimmo Forleo