Nucleare, terremoti e dintorni
21 Marzo 2011Metto giù alcune considerazioni che, a me, vengono spontanee.
È probabile, anzi sicuro, che le mie riflessioni urteranno la sensibilità di molti (soprattutto quelle in cui parlerò di nucleare), ma non avendo il problema di dover inseguire l’opinione pubblica e le sue mutevolissime convinzioni, sento il dovere di argomentare facendo ricorso, ancora una volta, alla razionalità. O perlomeno a quel che essa consiglia.
Dovendo parlare sia terremoti che di nucleare, credo sia un bene accennare brevemente alla “filosofia” che in questi giorni è tornata a scaldare i propri motori; sicura del fatto che si sta vivendo un momento storico favorevole alla sua definitiva affermazione.
Non ho bisogno di dilungarmi nella descrizione di tale filosofia, è stata già oggetto di infinite discussioni qui su Palagiano.net ogni qualvolta si sia data una discussione riguardante i temi dell’economia, dell’ambientalismo e, non me ne voglia l’amico Salvatore Pulimeno, dello stare a tavola. Essa filosofia sostiene, detta in maniera sintetica, che “si stava meglio quando si stava peggio”.
In pratica, i suoi sostenitori ritengono che sia giunto il momento di dare un taglio alla filosofia opposta fin qui seguita: progresso continuo della scienza e della tecnica, crescita costante del benessere, espansione dei consumi.
Mi rendo conto che, esposta nella maniera appena rappresentata, la posizione di quanti si oppongono alla “degenerazione del modernismo” appare fin troppo ingenua ed espone a roventi critiche chi, come me, in maniera considerata ingenerosa la descrive in detti modi. Ma ho buone ragioni per dire di non sentirmi nel torto e di non essere affatto ingeneroso.
Immagino già la prima delle tante obiezioni che potrebbero giungermi: Non sta scritto da nessuna parte che al contenimento dei consumi debba poi seguire un rallentamento della ricerca tecnico-scientifica e una diminuzione del benessere; anzi, limitando le risorse della ricerca dedicata al consumo è probabile che se ne rendano disponibili altre per la ricerca “sana” e che si inneschi un meccanismo virtuoso volto a farci apprezzare il vero senso della vita. Non sono forse le stesse religioni a sostenere che il consumismo allontana l’uomo dal suo vero scopo?
Ecco, siamo già giunti a una domanda cruciale: A chi spetta di stabilire “il vero senso della vita”? Forse al Papa, a qualche imam, o, magari, a Carlo Petrini e Serge Latouche?
In fondo, il limite di ogni teoria della decrescita o della crescita sostenibile è dato dall’impossibilità di poter fornire una risposta alla precedente domanda. A meno che non si sia sospinti da una fede cieca (e perciò del tutto irrazionale) in qualcosa o qualcuno, il fine della nostra esistenza rischia di diventare la ricerca di una risposta a una domanda priva di senso.
Esiste allora una maniera “corretta” di raffrontarsi col problema posto? Sì, a patto però che si escluda dal nostro orizzonte speculativo la ricerca di un “fine”.
Sin da quando l’uomo è apparso sulla terra, il suo problema è stato un problema di scarsità: scarsità di beni. Anche se ci dicessimo disponibili a credere al mito di una umanità primigenia abitante un “paradiso terrestre” – luogo in cui tutto era a portata di mano per i pochi che lo popolavano –, dovremmo immediatamente ripiegare sulla constatazione del venir meno di quel paradiso. Forse a causa di un peccato originale, più probabilmente per sopravvenuta crescita demografica.
Al problema della scarsità l’uomo ha cercato di rispondere in svariati modi: prendendosela con degli dèi cattivi, o con se stesso in quanto avrebbe disubbidito a un dio invece buono; facendo ricorso alla rapina a danno dei più deboli; gestendo in maniera centralizzata le scarse risorse.
Tutte queste “soluzioni” si sono rivelate essere per quel che erano: false soluzioni. Per ovvia inconcludenza quella che ricorreva alla spiegazione divina del fenomeno della scarsità; per via del costo onerosissimo previsto da quella che confidava nella rapina: ogni rapina è rischiosa; per la staticità alla quale ci si lega quando si sceglie un sistema centralizzato: il centralismo si è dimostrato incapace di produrre nuovi beni, o li ha prodotti in maniera molto stentata e oltremodo costosa.
Perché queste tre “soluzioni” si sono rivelate erronee? Semplice, perché difettano di due ingredienti necessari alla produzione di nuovi beni: 1) la volontà del singolo individuo di capire le esigenze dell’altro, per trarne un vantaggio per sé; 2) la cooperazione spontanea che nasce quando si lascia libertà all’individuo di indovinare le esigenze dell’altro. La base di questi due ingredienti si chiama “proprietà privata” dei mezzi di produzione, e ogni tipo di limitazione posta a quella proprietà limita la produzione di beni.
Nonostante i numerosi casi di fallimento registrati nella storia, ogni qualvolta si è voluto prescindere dalla libera iniziativa individuale, i sostenitori di una delle tre “soluzioni” prima descritte hanno sempre trovato naturale allearsi per sostenere la presunta carica malefica ascrivibile al capitalismo e, ovviamente, per dire tutto il bene possibile delle soluzioni rivelatesi fallimentari. Non ci fosse di che piangere, la cosa sarebbe da ridere.
Oggi, all’indomani del catastrofico terremoto abbattutosi sul Giappone, i degni eredi di innumerevoli fallimenti, manco a dirlo, si ritrovano insieme intorno a posizioni condivise.
Il terremoto? È la Natura (rigorosamente con la maiuscola iniziale) che, stanca dei soprusi consumati dall’uomo ai suoi danni, si ribella. La fuga di radioattività dalla centrale atomica? L’uomo è tanto imbecille e così intento a programmare la distruzione del pianeta da non capire di far male anche a se stesso.
Mi verrebbe da porre loro un paio di domande: Hanno notizia, oppure no, di terremoti accaduti ancor prima che l’uomo decidesse di “sfruttare” la natura? Come pensano di poter far fronte alla crescente domanda di energia, senza dover almeno costringere i 2/3 del globo a starsene fermo o, in alternativa, senza ricorrere a un blocco demografico?
Mimmo Forleo