PD, un partito vecchio anche nei giovani
17 Novembre 2010Per la prima volta nella breve storia del PD un gruppo dirigente rassegna le proprie dimissioni all’indomani dell’ennesimo insuccesso a delle Primarie, quelle milanesi.
Di per sé potrebbe sembrare una buona notizia; assumersi le proprie responsabilità, soprattutto in un partito dove si è perfino provato a scaricarle sui propri alleati in Amministrazione (è accaduto a Palagiano, non dimentichiamolo), è sempre un buon segno. Ma non lasciamoci ingannare dalle apparenze; oggi gli unici disposti a pagare un prezzo nel PD sono gli appartenenti a una generazione che ha provato a contestare i “padri” e che, eccedendo nella valutazione delle proprie responsabilità, sta assumendo sulle proprie spalle delle colpe non solo sue.
Potrà sembrare paradossale sostenere, da un lato, che si è di fronte a una buona notizia (le dimissioni offerte) e, dall’altro, sostenere insieme che quelle dimissioni non andavano offerte; ma, se avrete la pazienza di seguirmi, proverò a dimostrare perché non si dia alcuna contraddizione in quel che vado a sostenere.
Partiamo dal PD, dal progetto di dare vita all’interno della sinistra a un “partito nuovo”
Le avrò ripetute decine di volte, ma occorre qui richiamare le ragioni che hanno fatto sì che la nascita del PD fosse avvertita come necessaria. La sinistra, in Italia e non solo, è da tempo giunta su un binario morto. L’unico modo per sfuggire alla ineluttabilità della propria morte politica era prenderne coscienza e intraprendere una nuova strada.
La strada obbligata da percorrere era ed è una soltanto: riappropriarsi delle proprie radici autentiche; che sono liberali e individualistiche, vale a dire le stesse che emersero all’indomani del tramonto della vecchia società feudale basata sul privilegio. Il socialismo e la conseguente teorizzazione marxiana non sono affatto di sinistra, costituiscono a tutti gli effetti un ritorno al Vecchio Ordine (utilizzo qui una definizione rothbardiana), quello fondato sul privilegio. I loro epigoni, tutte le forze politiche che si dicono “a sinistra” del PD, sono di fatto forze reazionarie.
Potrà sembrare fantasiosa la ricostruzione storica che qui si illustra ma, a dimostrazione che non lo è affatto e che anzi è coerente con la storia meno recente di una almeno delle due maggiori forze politiche che hanno dato vita al PD, è possibile citare autori come Luigi Sturzo e tutta la tradizione politico-filosofica liberale europea a partire da Hume.
Lo strumento delle Primarie
Sarebbero dovute bastare queste evidenze di tipo storico-logico per far comprendere come le Primarie possono essere un ottimo strumento di democrazia interna, ma assolutamente inconciliabile con le necessità che avevano condotto a far nascere il partito nuovo.
Un partito nato sulla base delle premesse appena esposte, la prima cosa che fa è quella di prendere le distanze da tutto ciò che non gli appare in sintonia con quelle premesse. Ciò non si significa chiudere la porta ad ogni discorso che riguardi una possibile collaborazione governativa, significa soltanto che gli eventuali alleati devono prendere atto del maggior peso elettorale altrui e che tale maggior peso dà diritto, a chi lo detiene, di stabilire la linea politica principale. Si tratta, senza tanti giri di parole, della intuizione veltroniana conosciuta col nome di “vocazione maggioritaria”.
Va da sé che, alla luce di quanto detto sulla “vocazione maggioritaria”, al partito detentore del maggior peso elettorale spetti di diritto la guida della possibile coalizione elettorale; le primarie di coalizione, dato il quadro qui illustrato, rappresentano la negazione del motivo stesso per cui si è dato vita al PD.
Al contrario, per un partito che ha dichiarato proprie stelle polari la competizione e il merito, le primarie interne dovrebbero costituire l’unico metodo di selezione consentito per la propria classe dirigente.
Il PD che conosciamo ha seguito esattamente il percorso opposto: ha scelto di suicidarsi ripetutamente con delle primarie di coalizione e ha di fatto bandito quelle al proprio interno!
L’errore del gruppo dirigente lombardo
Oggi, se possibile in maniera più forte di quanto fatto finora, i dirigenti lombardi del PD avrebbero dovuto chiedere le dimissioni del gruppo dirigente nazionale. È semplicemente folle volersi far carico di un risultato che affonda le proprie radici nelle scelte dissennate fatte al livello nazionale.
Deve far riflettere il considerare che l’età media del gruppo dirigente milanese si aggira intorno ai quarant’anni. Si tratta, molto probabilmente, di quarantenni selezionati col metodo della cooptazione. Un gruppo dirigente che avesse conquistato sul campo i galloni, con delle primarie vere, ben difficilmente si sarebbe dimostrato così arrendevole.
Considerazione finale
Le Primarie di coalizione, così come sono state utilizzate finora, si sono trasformate in un referendum perpetuo sulla linea che il partito deve tenere. Fanno del PD, nella migliore delle ipotesi, un partito dalla linea politica ondivaga; a seconda della contingenza storica, si fa dettare dall’elettorato – neppure il suo, ma quello di altri partiti – la linea politica da seguire. Nella ipotesi più realistica, il PD è un partito che manca al suo maggior dovere: quello di elaborare una linea politica propria. È un non-partito!
Mimmo Forleo