Pensare “glo-calmente”
16 Maggio 2010Torno a scrivere un pezzo “pesante” – non perché sono un sadico, ma – perché l’occasione mi viene fornita da una riunione tenutasi nel Pd che, del tutto incidentalmente, ha incrociato molto da vicino alcune questioni che dovrebbero stare a cuore a quanti si dedicano al far politica: a) il formarsi e il mantenimento del consenso, b) l’importanza della “speculazione” politica al fine di ottenere due risultati: 1) agire sulle forme del consenso, 2) dotare i partiti (ma il discorso può valere anche per associazioni, movimenti ecc.) di personale politico in grado di svolgere al meglio, grazie proprio al percorso speculativo, anche gli eventuali incarichi amministrativi.
Al solito, le mie “teorizzazioni” saranno seguite da esempi pratici onde evitare l’impressione di stare argomentando su “l’aria fritta”.
Partiamo dal consenso, sua formazione e suo mantenimento.
Dovrebbe essere chiaro che il meccanismo del consenso, nelle società complesse, consiste nel riuscire ad aggregare vari soggetti – tanto gli individui “isolati”, tanto quelli “associati” – intorno ad una proposta che contemperi le “pretese” di ognuno, o del maggior numero possibile di soggetti.
Per “pretesa” qui s’intende tutto quello che, legittimamente, viene avanzato in forma di richiesta all’organismo istituzionale (lo Stato, le Regioni, i Comuni ecc.) di cui si fa parte.
I partiti, quindi, si configurano a loro volta come soggetti ulteriori la cui “ulteriorità” deriva dall’opera di “prima mediazione” realizzata al livello delle prime pretese.
Esempio: un partito che volesse rappresentare le diverse istanze provenienti dal mondo del “lavoro dipendente” e da quello dei “datori di lavoro” si troverebbe a dover sciogliere un nodo apparentemente inestricabile: sarebbe interesse dei lavoratori dipendenti richiedere salari più alti in contrapposizione alla richiesta di tenore opposto proveniente dal mondo “padronale”.
Stiamo parlando di qualcosa che storicamente si è già dato: nell’Ottocento la nascita dei “partiti di classe” fu originata proprio da una contrapposizione di questo tipo.
In realtà, per poter aver voce nel grande capitolo che chiamiamo “Stato”, ci si accorse che occorreva lasciarsi alle spalle una visione “sindacale” e abbracciarne una “politica”. Il problema non era semplicemente riducibile a uno scontro sui salari, il problema vero era dato dalla necessità di estendere significativamente i confini inclusivi dello Stato. Solo così facendo si sarebbe ottenuto che a qualcuno non venisse voglia di utilizzare alcune estensioni armate dello Stato (polizia, oppure esercito) per sparare addosso agli operai in sciopero!
La “politica”, allora, divenne chiaramente lo strumento atto a conferire pari dignità a tutti i soggetti rientranti nei confini di quanto chiamiamo Stato.
La politica, declinandola in tal modo, è strumento inclusivo per eccellenza.
L’opera di “prima mediazione” tra interessi contrastanti diviene possibile soltanto se i partiti chiamati ad esercitarla possiedono gli strumenti culturali necessari.
Un partito, per fare un altro esempio, che non prevedesse al suo interno una solida preparazione economica farebbe bene a dedicarsi ad altro; a rimanere cioè nell’ambito del pre-politico, ovvero, alla visione “sindacale” di cui dicevamo.
E’ quanto fanno i partiti della sinistra radicale. Che questo poi non paghi elettoralmente (e non può più pagare da quando, nel Novecento, sono nati i partiti “interclassisti”) è un problema di quei partiti e che la dice lunga sulla loro natura di “fossili” della politica.
Solo una buona conoscenza dell’economia e delle sue leggi, per fare un altro esempio banalissimo, consentono ad un partito di proporsi come mediatore tra due classi dagli interessi apparentemente divergenti.
La soluzione della divergenza scaturisce da considerazioni relative al mercato: gli aumenti salariali potrebbero risultare giustificati da misure protezionistiche a favore delle imprese nazionali (così, tolta di mezzo la concorrenza estera, anche l’imprenditore avrebbe interesse a dare più denaro al suo dipendente, divenuto nel frattempo consumatore da privilegiare), oppure incentivando una politica economica volta all’esportazione sui mercati esteri come contropartita agli aumenti salariali.
Queste sono considerazioni che valgono non solo a livello nazionale, ma anche al livello locale.
L’errore più comune a riscontrarsi consiste nell’atteggiamento, assunto nei circoli e nelle sezioni locali, teso a considerare come estranee al proprio ambito le politiche aventi natura “nazionale”.
La domanda che ci si sente rivolgere, ogniqualvolta si cerchi di portare la discussione di una locale sezione di partito ad affrontare tali nodi, è: “Ma pensi davvero che sia utile discuterne al nostro livello?” Come se la politica si componesse di diversi livelli territoriali, ognuno dotato soltanto di specifiche competenze.
Certamente esistono i diversi livelli territoriali, ma occorre anche aggiungere che i territori non risultano estranei agli effetti delle politiche nazionali. Tra l’altro, pensando il contrario, non si comprenderebbe a quale titolo, localmente, ci si potrebbe dire appartenenti ad una partito, piuttosto che a un altro!
Credo che l’aspetto meno evidente di questo venir meno, da parte dei partiti locali, a un’ottica di tipo “glo-cale” (globale + locale) consista nella perdita dei punti di riferimento ai quali ancorare la propria proposta politica.
Porto degli esempi conclusivi:
Oggi assistiamo ad esempi di adesione allegra (nel senso di spensierata), da parte anche di dirigenti locali del Pd, ad una battaglia (quella per “l’acqua pubblica”) senza neppure chiedersene la ragione. O senza chiedersi “ma il partito nazionale, cosa ha deliberato a tale proposito?”.
Adesso, gli stessi dirigenti che hanno approvato la “biologizzazione” della mensa scolastica palagianese, plaudono all’iniziativa provinciale che intende vincolare territorialmente gli acquisti di ortofrutta destinati alle mense pubbliche. Delle due una, le nostre aziende agricole vogliamo premiarle, oppure castigarle? Oppure, come appare più probabile vista la quasi totale assenza nel nostro territorio di aziende agricole “biologiche”, vogliamo semplicemente eliminare frutta e verdura dalle nostre mense pubbliche?
Mimmo Forleo