Perché, in un mondo globalizzato, solo i mercati possono salvare i lavoratori
9 Agosto 2010Mi va di affrontare una questione, che più che essere una “questione” è una vera e propria paura, emersa durante una discussione su FaceBook e che sembra condivisa da tanti.
La paura è questa: “Se tutte le aziende facessero come la FIAT, che vuole andare a produrre in Serbia, in Italia si esaurirebbero ben presto i posti di lavoro.” Stiamo parlando del cosiddetto rischio da “delocalizzazione produttiva” sul quale si sono esercitati in tanti; dal cittadino comune a Tremonti fino, di recente sul Corriere della Sera, a Giovanni Sartori.
In effetti, se si lasciasse fare al mercato, la paura non avrebbe motivo di diffondersi. Ma in Italia la situazione è tale da giustificare non solo la paura ma perfino il terrore.
Il ragionamento fatto da molti è il seguente: “Se esiste un differenziale di costo del lavoro tra due o più paesi, le aziende trasferiranno la loro base produttiva in quel/i paese/i dove il lavoro costa meno.”
Questo ragionamento è vero solo in parte. Sarebbe vero se l’unico fattore di composizione del costo di un prodotto fosse il lavoro, ma non è così. Sappiamo tutti che altri fattori vanno a comporre il costo: il livello dell’istruzione scolastica, quello infrastrutturale, la minore o maggiore rigidità del mercato del lavoro, il “peso” dell’imposizione fiscale, il costo dei servizi ecc. ecc.
Per sviluppare un ragionamento che non sia fallace quanto il primo, occorre rifarsi a un modello che consenta di prevedere come si assesta il sistema studiato (nel nostro caso quello del mercato del lavoro) al variare dei fattori che lo modificano. Per semplicità, adotteremo in un primo momento un modello molto semplice che tenga conto di un solo fattore: il costo del lavoro.
Immaginiamo che il lavoro costi in Cina venti volte meno che in Italia nel caso in cui si vogliano produrre magliette, e dieci volte meno nel caso delle lavatrici.
Il comune modo di pensare dirà così: “la Cina si metterà a produrre tanto le magliette quanto le lavatrici e all’Italia non resterà che trasformarsi in un paese importatore tanto di magliette quanto di lavatrici”. Vi appare ragionevole questo modo di pensare, vero?
Ebbene, state sbagliando. Non state considerando il fatto che produrre magliette in Cina è più remunerativo del produrre lavatrici. L’imprenditore cinese avrà interesse a produrre magliette piuttosto che lavatrici. Le lavatrici, lascerà che le produca l’imprenditore italiano che in quel settore ha uno svantaggio comparato meno forte rispetto al settore delle magliette.
Non sto dicendo nulla di nuovo. Si tratta della teoria dei “vantaggi comparati” di Ricardo e risalente a quasi tre secoli fa.
Come detto, si tratta di un modello molto semplificato. Nella realtà, al solito, le cose sono un po’ più complicate.
Come ho già sostenuto altre volte, vivendo noi in Italia, un paese dalle condizioni più simili a quelle tedesche o francesi, la concorrenza da cui bisogna guardarsi non è quella cinese ma quella dei paesi più simili al nostro. La riprova, casomai non siate ancora convinti della bontà del discorso appena fatto a proposito della Cina, è fornita dai dati relativi alla produzione industriale resi noti in questi giorni.
Con grandi strombazzate sui giornali e sulle televisioni, il governo ci ha tenuto a farci sapere che “la crisi è finita” (e qui ci sarebbe da chiedersi di quale crisi parlano, visto che l’hanno sempre negata, ma lasciamo perdere) e che la nostra produzione industriale sta vivendo un nuovo rinascimento.
Peccato che nessuno dei signori al governo, e Tremonti in particolare, abbia mostrato pari sensibilità nel farci conoscere un altro dato: quello relativo ai mercati che acquistano la nostra produzione.
State pensando che la stiano acquistando paesi simili al nostro?
State sbagliando di nuovo. L’80% circa della nostra produzione industriale la stanno assorbendo paesi che si chiamano Cina, India o comunque dotati di nomi altrettanto esotici.
Sarebbe nostro interesse, allora, interrogarci sui motivi che spingono aziende come la FIAT a trasferire la loro produzione non in Cina, ma in Serbia. Ma non lo faremo, così come non ci siamo chiesti anni addietro perché paesi come il Giappone delocalizzavano in Europa, ma non in Italia.
Mimmo Forleo