LA SPECIFICITA’ MILITARE ALLA PROVA DI LABORATORIO. di Cleto Iafrate
17 Agosto 2014Pubblichiamo un articolo del palagianese Cleto Iafrate, nel quale l’autore unisce al consueto rigore metodologico – fatto di citazioni normative, storiche ed etimologiche – un simpatico senso dell’umorismo con cui, al di là di ogni altra considerazione, sintetizza al meglio l’essenza del delicato tema trattato, sottoponendo “la specificità militare ad una insolita prova di laboratorio”.
SOMMARIO: 1. Introduzione – 2. Le origini storiche della specificità militare – 3. La prova di laboratorio – 4. Ulteriori effetti della specificità militare – segue: a) L’azione penale facoltativa; b) Le sanzioni disciplinari penalmente rilevanti; c) Le concessioni premiali; d) Il trasferimento d’autorità; e) Obbedienza Geneticamente Modificata (O.G.M.) e insindacabilità dell’ordine; f) Il segreto investigativo –5. Il risultato della prova di laboratorio.
1. INTRODUZIONE
Il termine “specifico” deriva dalla parola latina “species”, che significa appartenenza, e si usa in contrapposizione con “genus” (genere).
Una donna in gravidanza, per esempio, rappresenta la species del genus donna. Lo stato interessante la rende specifica rispetto al genus di appartenenza e le fornisce, direi con ragione, alcuni vantaggi tra cui l’accesso gratuito alle cure connesse alla gravidanza, la possibilità di non fare la fila al supermercato e negli uffici pubblici e diversi altri.
Secondo una ben consolidata corrente di pensiero, lo stesso discorso varrebbe per i militari. I sostenitori della specificità militare asseriscono che i cittadini militari[1] sono specifici rispetto agli altri cittadini che militari non sono. Anche questa specificità sui generis, al pari dell’altra, non è priva di conseguenze. Per introdurle mi piace partire da due significative vicende giudiziarie, le cui regole procedurali sono simili a tante altre. La prima ha per protagonista un carabiniere, l’altra un finanziere.
1) Tra un sottufficiale dei carabiniere e il suo comandante non corre proprio buon sangue. Il conflitto sfocia in una denuncia del maresciallo nei confronti del superiore per minaccia o ingiuria a un inferiore (art. 196 c.p.m.p.). Seguirà la condanna del superiore.
Nonostante la situazione di grave conflittualità in essere, l’ufficiale non si astiene dal valutare il maresciallo nel corso della successiva compilazione delle note caratteristiche e lo giudicherà con minor pregio rispetto all’anno precedente. Il giudizio (caratteristico) come noto incide sull’avanzamento e sulla carriera e ha pesanti ripercussioni sul diritto soggettivo alla giusta retribuzione stipendiale, oltre a pesare sull’interesse legittimo ad ottenere il trasferimento. Il giudizio caratteristico addirittura inibisce la partecipazione ad alcuni concorsi interni per il passaggio al grado superiore.
In ragione della caratura degli interessi in gioco, il maresciallo chiede l’annullamento della scheda valutativa per violazione del dovere d’imparzialità e obiettività. Il sottufficiale ritiene che il potere valutativo sarebbe stato dal superiore “piegato e orientato a fini vendicativi e di penalizzazione dei suoi sviluppi di carriera”e sostiene che il superiore avrebbe dovuto astenersi.
Il TAR rigetta il ricorso; il militare fa appello e il Consiglio di Stato conferma il rigetto (Consiglio di Stato sez. IV del 08/07/2013 – n. 3604).
2) Vari organi istituzionali ricevono sei denunce anonime nei confronti di ufficiali e sottufficiali della Guardia di Finanza per ritenuti reati contro la Pubblica amministrazione. A seguito di approfondimenti sulla paternità degli scritti, viene instaurato un procedimento penale nei confronti di un maresciallo della G.di F., al quale si contesta il reato di calunnia continuata e aggravata. Il militare viene condannato in primo grado ed assolto in secondo grado “perché il fatto non sussiste”. Le denunce vengono ritenute “veritiere o, comunque, non calunniose”. La storia purtroppo è solo agli inizi. Sulla base delle risultanze processuali, viene avviato un procedimento disciplinare a carico del militare, con relativa contestazione degli addebiti da parte di un ufficiale inquirente. All’esito dell’istruttoria il maresciallo, su proposta dell’ufficiale inquirente, viene deferito alla Commissione di disciplina che, previa audizione dello stesso e del suo difensore, gli infligge la massima pena disciplinare prevista dall’ordinamento: la perdita del grado per rimozione. Verrà posto a disposizione del Distretto militare di appartenenza come soldato semplice. A parte la sanzione, forse, un po’ sproporzionata, fin qui tutto apparentemente regolare dal punto di vista procedurale; se non fosse che le funzioni di Ufficiale inquirente vennero affidate ed espletate proprio da uno degli Ufficiali pretesamente calunniati. Insomma, per farla breve, dopo ben 17 anni dall’invio delle lettere anonime, il procedimento disciplinare verrà annullato dal Consiglio di Stato (Consiglio di Stato sez. IV del 20 settembre 2012 – n. 5037).
Come noto l’ordinamento statuale non consente a chi è parte lesa di condurre le indagini per risalire al presunto responsabile del reato, men che meno, di giudicarlo e infliggergli sanzioni che incidano sui suoi diritti soggettivi. Le indagini sarebbero inquinate e il giudizio, certamente, fazioso o, quanto meno, poco lucido.
Si tratta di discorsi elementari, sui quali l’espositore educato non insiste, temendo di offendere il lettore. E forse sbaglia!
Nell’ordinamento statuale la terzietà assorbe la imparzialità, cosicché ovunque c’è terzietà, c’è necessariamente imparzialità, ma non vale l’inverso: non puoi essere imparziale se non sei terzo (almeno quando in gioco ci sono i diritti soggettivi).
La domanda allora sorge spontanea: per quale ragione l’ordinamento militare consente ciò che l’ordinamento statuale non permette? Perché il dirigente pubblico nelle medesime circostanze è ritenuto dall’ordinamento incompatibile[2] (si deve astenere), mentre il capo militare è compatibile[3] (non è tenuto a farlo)?
In altre parole: che cos’è la specificità?
La specificità è uno “stato d’animo” che ti permette di essere imparziale senza essere terzo. E’ questa la specificità.
2. LE ORIGINI STORICHE DELLA SPECIFICITA’ MILITARE
Come è potuto accadere che l’ordinamento militare si sia smarcato non solo dai principi costituzionali ma addirittura anche dai Sacri Testi?
In fondo il Vangelo nel descrivere le basse passioni che albergano nel cuore di ogni uomo non ha fatto alcuna distinzione tra uomo e uomo (Mc. 7, 21-23), Non ha escluso nessuno se non il Figlio di Dio: “agnello senza macchia che non ha risposto al male con il male”.
Ciò è potuto accadere in quanto l’ordinamento militaresi fonda su principi preesistenti allo Stato di diritto e addirittura al Vangelo, ereditati dalla tradizione e dalla consuetudine, che derivano dalle antiche regole cavalleresche. Alla base di tali principi vi è la regola dell’onore militare.
L’onore militare può definirsi una qualità etico-psicologica, espressione di tutte quelle virtù caratteriali – onestà, lealtà, rettitudine, fedeltà, giustizia, imparzialità – che procurano la stima altrui e che i capi militari ritengono di possedere e di dover gelosamente custodire, nell’intimo convincimento della necessità di mantenerle integre.
E’ stata proprio la regola dell’onore che a consentito all’ordinamento militare di rimanere impermeabile ai principi costituzionali. Ebbene, la specificità è figlia della regola dell’onore.
Da quale momento inizia la specificità militare?
Secondo la tradizione il momento in cui il cittadino abbandona lo status civitatis per accogliere quello militis – e diventare così specifico – ha radici che si perdono nella notte dei tempi. La traccia più antica pervenutaci risale addirittura al VII – VI sec. prima di Cristo; si tratta del ‘vaso Duenos’ recante l’incisione di una promessa giurata. Mi riferisco al particolare significato che anticamente era attribuito al giuramento romano.
Si consideri che l’espressione “per bacco” per manifestare fastidio e disagio, ancora in uso nel nostro attuale linguaggio, in realtà deriva da “Per Bákkhos”,divinità della religione romana, che invocata nel corso di un atto sacro garantiva il buon esito della vendemmia.
Il più importante giuramento romano era quello militare. Il primo di cui si ha memoria è raccontato da Tito Livio in un suo scritto, si tratta di un antico giuramento sannita, che risale addirittura al 293 avanti Cristo.
Ai tempi dell’impero romano il giuramento militare si chiamava sacramentum militiae, poiché era il mezzo mediante il quale veniva creato, con il favore degli dei, un nuovo stato personale: lo status militis.
Il giuramento aveva una funzione propriamente teologale[4], ad esso partecipavano tre soggetti: una figura divina attiva che, invocata, garantiva il buon esito dell’atto “sacro”; un soggetto terreno attivo che chiamava in causa la potenza sovraumana degli dei e infine uno passivo, il legionario, che giurando riceveva, per infusione, forza, coraggio e, soprattutto, un supplemento di purezza.
I legionariromani dopo il giuramento avevano diritto a fregiarsi del nome di “sacrati”; per così dire “fecondati dagli dei” nel corso dell’atto-giuramento. Plutarco narra che nessun soldato poteva uccidere o percuotere un nemico prima di aver prestato giuramento.
La naturale conseguenza di questa atmosfera pregna di sacralità e ammantata di religiosità fu l’affermazione della regola dell’onore militare che, ahimè, ancora oggi informa l’ordinamento militare.
Nel passaggio dal Vecchio al Nuovo testamento e fino a giungere quasi ai giorni nostri, le cose sono cambiate di poco: “Principale e primo dovere di ogni militare – detta l’art. 1 del Regolamento di disciplina militare del 1822 – è essere uomo religioso; senza di tale qualità, egli non potrà mai ispirare piena fiducia allo stato, poiché dalla medesima dipende sommamente l’adempimento di ogni dovere”; il successivo art. 4 definisce come “preciso comandamento divino” la fedeltà ai giuramenti.
3. LA PROVA DI LABORATORIO
Quindi possiamo dire che tanto la specificità della donna in gravidanza quanto quella militare sono la conseguenza di un incontro: nel primo caso tra lo spermatozoo e l’ovocita, nel secondo tra il divino e l’umano; l’uno genera “un nuovo uomo”, l’altro “un uomo nuovo”, affrancato dalle influenze del peccato originale.
La specificità militare nasce da una ordalia, sopravvive nel medio evo come atto di fede e viene accolta dallo stato di diritto non tanto per convinzione quanto per tradizione legata più che altro a vischiosità storiche.
Oggi però i tempi sono cambiati, il progresso scientifico ha fatto passi da giganti, basta una semplice ecografia per verificare l’esistenza dei presupposti della specificità della donna.
Sono convinto che sia altrettanto possibile accertare scientificamente anche l’esistenza di quelli su cui si basa la specificità militare. A tal proposito propongo di eseguire il giuramento militare nelle ore notturne – magari alla presenza di osservatori indipendenti – e di posizionare su un buon punto di osservazione (una garitta oppure un elicottero) delle telecamere termografiche munite di sistema Flir. Le termocamere FLIR systems, infatti, sono munite di un sensore che registra le più minuscole differenze di presenza di calore che convertono poi in un’immagine visibile. Le termografie vengono salvate su una scheda SD rimovibile e possono essere successivamente riviste e anche ingrandite. Sono certo che in questo modo si riuscirà a fissare il momento in cui il divino si incontra con l’umano e lo rende specifico.
Il fatto di affidarsi al contrasto termico piuttosto che a quello visibile, fa sì che le termocamere riescano a fornire una visione perfetta, invisibile ad occhio nudo, della più impercettibile fonte di calore che dovrebbe condurre il supplemento di purezza.
Quasi sicuramente rileveremo una immagine del tipo di quella che segue.
Certo non bisogna fermarsi al primo test, vista la caratura degli interessi in gioco è necessario fare le opportune verifiche ed approfondimenti.
Nonostante sia evidente il flusso di calore che parrebbe diffondersi all’interno dello schieramento, bene ha fatto il comandante a richiedere le prove di dettaglio per accertarne la provenienza.
In attesa che il laboratorio elabori gli ingrandimenti, esamineremo alcune altre norme che poggiano sulla specificità militare e che in assenza di quella risulterebbero traballanti o, quantomeno, di dubbia costituzionalità.
4. ULTERIORI EFFETTI DELLA SPECIFICITA’ MILITARE
a) L’azione penale facoltativa. Nell’ambito dell’ordinamento statuale, come noto, vige il principio secondo il quale la perseguibilità dei reati è obbligatoria; ebbene in quello militare non è così, o perlomeno, non è sempre così.
Si tratta di una chiara espressione di specificità militare. Mi riferisco all’art. 260, secondo comma, del codice penale militare di pace, a mente del quale i reati per i quali la legge stabilisce la pena non superiore nel massimo a sei mesi di reclusione militare sono puniti a richiesta del comandante di corpo o di altro ente superiore da cui dipende il militare colpevole.
E’ in tutta evidenza una norma che presuppone l’esistenza del requisito di imparzialità in assenza di terzietà. A tal proposito si consideri l’ipotesi in cui il comandante di corpo di appartenenza del militare sia anche la persona offesa dall’illecito; saprebbe rispondere al male con imparzialità? Per quanto sia doveroso accreditare a chi esercita il comando doti di imparzialità e distacco, non può obiettivamente escludersi che l’aver subito un offesa renda più difficile l’esercizio della scelta circa la via da seguire (penale o disciplinare) per punire l’autore della condotta.
A complicare la questioni è la double face dell’atto-richiesta del comandante. Per un verso, trattandosi di atto soggettivamente amministrativo in quanto proveniente da un organo amministrativo, è caratterizzato da ampia e non vincolata discrezionalità politico-amministrativa; per verso opposto è un vero e proprio atto processuale, con la conseguenza che ad esso non è applicabile l’obbligo di motivazione imposto dal legislatore per tutti gli atti amministrativi direttamente incidenti su interessi sostanziali del soggetto. L’atto, infatti, è subordinato soltanto ai requisiti espressamente richiesti dalla legge penale sostanziale e processuale; tali requisiti sono la sottoscrizione dell’autorità competente e la presentazione al P.M. entro un mese dal giorno in cui la detta autorità ebbe notizia del fatto.
Stante il tenore della norma, non è da escludesi che per fatti identici possa succedere che un militare sia punito disciplinarmente ed un altro, sulla base di una insindacabile e immotivata determinazione del comandante, sia sottoposto a procedimento penale.
In assenza di riscontri di laboratorio, continuare ad affermare una discrezionalità nell’applicazione della legge penale potrebbe dare luogo a disparità di trattamento apprezzabili sotto il profilo del principio di uguaglianza sostanziale e formale.
b) Le sanzioni disciplinari penalmente rilevanti. Tra le sanzioni tipiche militari rilevano ai nostri fini la consegna semplice e di rigore. La prima consiste nel privare il militare della libera uscita fino a un periodo massimo di sette giorni consecutivi[5].
E’ evidente che la sanzione ha conseguenze che incidono direttamente sui diritti soggettivi dei militari che fruiscono della libera uscita[6]. Per essi la sanzione assume connotazioni penali, poiché l’afflittività della pena è tale da ricondurre il precetto violato tra le infrazioni penalmente rilevanti.
La legge nel prevedere tale sanzione, però, non ha tipizzato gli specifici comportamenti a causa dei quali essa può essere inflitta. In altri termini, il legislatore ha tipizzato le sanzioni, ma non ha fatto altrettanto con le condotte/violazioni.
Il tenore dell’art. 1352 del C.O.M. appare, quindi, estremamente generico, potendosi riferire ad una molteplicità di comportamenti. La norma, infatti, afferma che “Costituisce illecito disciplinare ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina militare sanciti dal presente codice, dal regolamento, o conseguenti all’emanazione di un ordine”[7].
Non c’è dubbio che la scelta della locuzione linguistica “ogni violazione dei doveri” si presta, a causa della sua indeterminatezza e onnicomprensività, alle più disparate elusioni dei fondamentali diritti del militare, il quale non è posto nella condizione di conoscere preventivamente i comportamenti punibili con la sanzione della consegna. Ai capi militare, invece, è attribuita la più ampia discrezionalità nello stabilire in relazione a quali illeciti infliggere le sanzioni[8].
La consegna di rigore si realizza con l’obbligare il militare a restare, per un determinato periodo non superiore a quindici giorni, in un apposito spazio della caserma. In questo caso, data l’afflittività della sanzione, il legislatore regolamentare ha provato a tipizzare ben 55 precetti la cui violazione fa scattare la sanzione della consegna di rigore (art. 751 del T.U.O.M. – già allegato C al RDM). Alcune delle prescrizioni, però, eludono l’esigenza di specificità e tassatività richiesta dal legislatore costituzionale, descrivendo condotte del tutto generiche, mediante l’uso di forme elastiche e onnicomprensive. Si consideri, per esempio, che viene contemplata tra le ipotesi di reato punibile con la consegna di rigore un non meglio specificato “comportamento gravemente lesivo del prestigio o della reputazione del corpo di appartenenza” (punto 17).
L’apprezzamento dei comportamenti che offuscano il prestigio del Corpo è lasciato alla insindacabile “valutazione” del capo.
Parrebbe che le infrazioni punibili con le sanzioni di corpo eludano i principi costituzionali dal momento che si atteggiano come un contenitore all’interno del quale ci può rientrare di tutto.
Più che di elusione del principio di legalità, parlerei piuttosto di “integrazione”; nel senso che in virtù della specificità la volontà del capo si eleva essa stessa a principio di legalità per la comminazione di sanzioni che incidono sui diritti soggettivi dei sottoposti.
Se dal laboratorio dovesse emergere che la presenza di calore rilevata dal flir è di natura diversa da quella divina, la sanzione della consegna dovrebbe essere riformata nel senso di procedere ad una puntuale tipizzazione dei comportamenti in base ai quali infliggere le sanzioni.
c) Le concessioni premiali. Sono attribuite ai militari che abbiano compiuto atti straordinari o eccezionali, anche al fine di stimolare lo spirito di emulazione. Esse sono trascritte sulla documentazione caratteristica del beneficiario e, pertanto, incidono sull’esito dei concorsi interni, promozioni, trasferimenti e avanzamenti; inoltre, al pari delle sanzioni disciplinari, condizionano i giudizi annuali caratteristici da cui dipende strettamente la progressione di carriera, soprattutto degli ufficiali.
Stando alle disposizioni interne di dettaglio, non v’è un obbligo di premiare allo stesso modo atti simili. L’autorità esercita un potere discrezionale che può portare a valutazioni che non conducono, necessariamente, alla stessa decisione (premio/sanzione) se ritenuta inopportuna o sconveniente per quella circostanza o per quel manchevole. Si tratta di una enorme discrezionalità che incide, attraverso l’avanzamento, sul diritto soggettivo alla giusta retribuzione.
Se dal laboratorio non dovessero pervenire le conferme attese, gli atti eccezionali andrebbero meticolosamente tipizzati, altrimenti una così ampia discrezionalità potrebbe innescare, all’interno dei corpi militari, scontri tra cordate e lotte di potere. Nel tipizzare gli atti straordinari o eccezionali che stimolano lo spirito di emulazione non dovrebbero trovare spazio fattispecie che remunerano la “solennità del passo”, oppure la “guida con eccezionale perizia” (tutti sanno camminare e guidare!) ma bisognerebbe premiare i risultati di servizio, cioè coloro che arrestano criminali e assicurano alle casse dello Stato i proventi dell’evasione. In questo modo si riuscirà a selezionare i migliori poliziotti e verificatori fiscali, nell’altro si premiano quelli più mansueti e fedeli al capo.
d) Il trasferimento d’autorità. Rappresenta la massima estrinsecazione della specificità militare e, per certe sue implicazioni, anche la più pericolosa.
Si tratta del provvedimento mediante il quale l’amministrazione dispone che un militare venga assegnato d’ufficio ad altra sede di servizio diversa da quella in cui è impiegato. Il trasferimento d’autorità è qualificato come “un ordine militare” – cioè atto a forma libera contenente un precetto imperativo – pertanto è caratterizzato dalla più ampia discrezionalità a fronte della quale l’amministrazione non assume alcun obbligo di motivazione né alcuna necessità di comunicazione dell’avvio del procedimento (rispettivamente artt. 4 e 5 della L. 241/1990). L’amministrazione Difesa, infatti, ha posto in essere le opportune azioni tese a stralciare dal Regolamento attuativo della legge 241/1990 (DM 603/1993) le tabelle che fissano il “tempo massimo” per il procedimento di trasferimento.
La giurisprudenza ha addirittura stabilito che i trasferimenti d’autorità rientrano “nella categoria dell’ordine del superiore gerarchico e attengono, in buona sostanza, ad una semplice modalità di svolgimento del servizio sul territorio (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, n. 1677/2001, n. 2641/2000, n. 85/1996).
Nell’attuale contesto socio-economico è decisamente gravoso per un nucleo familiare affrontare un trasferimento da una sede ad un’altra: si pensi alla circostanza che ormai la maggior parte dei nuclei familiari presentano entrambi i coniugi lavoratori, e dunque il cambio di sede di uno comporta immediati riflessi sul lavoro dell’altro; si pensi inoltre alla frequentazione scolastica/universitaria dei figli; si pensi alle attuali difficoltà economiche e logistiche a reperire un alloggio con particolare riferimento alle grandi città. Come può un tale sconvolgimento di vita – gli ufficiali ne sanno qualcosa perché ne subiscono tanti – definirsi una semplice modalità di svolgimento del servizio?
Mi pare che l’istituto del trasferimento d’autorità, così come impostato, sia andato addirittura oltre i risultati di laboratorio. La specificità viene estesa perfino ai componenti il nucleo familiare del militare, nel senso che si presume che anche mogli e figli siano dotati di un supplemento di pazienza e di sopportazione. Non è così, o, perlomeno, non è sempre così.
Se dal laboratorio dovesse giungere una smentita, anche i trasferimenti d’autorità dovrebbero essere oggettivamente supportati da un’idonea giustificazione e soggetti al sindacato di legittimità con riferimento alla ragionevolezza del provvedimento. E se l’atto si dovesse rivelare illegittimo dovrebbe costituire fonte di pretese risarcitorie poiché produttivo di riflessi negativi nella sfera giuridica dell’interessato. Un uso di tale strumento in assenza d’onore potrebbe dar luogo ad atti discriminatori nei confronti dei sottoposti anche e non solo per motivi politici.
A tal proposito, mi preoccupano notizie ANSA[9] aventi il seguente tenore:
(ANSA) – ROMA ”Laddove vi siano state pressioni sull’avvicendamento dei quattro ufficiali milanesi, ciò costituirebbe un gravissimo ed inaccettabile atto di ingerenza nell’autonomia del corpo e per la salvaguardia dei diritti dei ‘lavoratori’ coinvolti”. Lo sostengono i delegati del Cocer della Guardia di finanza, Salvatore Trinx, Eliseo Taverna e Daniele Tisci.
”Ciò che ci preme mettere in evidenza – rilevano i delegati – è che in questo scontro tra vertici delle istituzioni dello Stato nessuno ha colto il profondo disagio patito dai quattro ufficiali dei comandi milanesi e dalle loro rispettive famiglie, nel vivere ed operare quotidianamente in un contesto lavorativo costituito dalle incertezze dovute all’inesistenza di tutele di tipo sindacale (si sarebbero visti trasferire verso sedi distanti centinaia di chilometri, al di fuori del normale piano d’impiego e senza giustificati motivi)”.
Questi avvenimenti, sottolineano i rappresentanti del Cocer delle Fiamme Gialle, ”concretizzano le paure e le angosce vissute dagli appartenenti al Corpo e manifestate da decenni dagli organismi di rappresentanza militare ad una politica sorda ed insensibile alle richieste di apertura verso tutele di tipo sindacale”.
”Avrebbe la politica – chiedono i tre – tentato di rimuovere i vertici delle Fiamme Gialle di Milano se questi avessero potuto contare su tutele sindacali (qualora venisse accertato che le indebite pressioni ci siano state)? E’ lecito che il corpo della Guardia di finanza, che opera nel delicato settore della sicurezza economico-finanziaria con riflessi nazionali ed internazionali, sia privo di quelle tutele che possano attenuare, riequilibrare ed eventualmente respingere indebite pressioni, da qualsiasi parte provengano?”. (ANSA).
E non mi rasserenano le parole che il Generale (della riserva) Umberto Rapetto ha affidato al settimanale OGGI del 25 giugno 2014:
“Il nodo di certe ignobili dinamiche feudali e vergognose prevaricazioni è venuto al pettine. Adesso chi ha subito iniquità e prepotenze, chi ha visto, chi sa, deve smettere di avere paura. È venuto il momento di denunciare e di dare ai magistrati l’opportunità di fare chiarezza e giustizia su fenomeni intollerabili anche in un Paese devastato come il nostro.”
L’impiego e la gestione del personale, prima che fossero istituiti gli Stati Maggiori, era una prerogativa dell’autorità politica, la quale realizzava efficacemente i suoi scopi attraverso lo strumento della disciplina militare. Ancora oggi, in occasione delle nomine delle più alte cariche istituzionali in campo militare, si derogano le rigide procedure di assunzione dell’incarico di comando in relazione al grado rivestito e, a parità di grado, all’anzianità posseduta, privilegiando i criteri discrezionali attribuiti alle autorità decidenti. Le nomine avvengono su scelta politica e al conferimento dell’incarico corrisponde una speciale indennità pensionabile, detta S.I.P[10]. E’ necessario custodire e preservare il più possibile i vertici militari da situazioni che possano creare loro imbarazzi nei rapporti istituzionali con la politica.
Se gli ingrandimenti delle termografie non dovessero dare i risultati attesi, le autorità di vertice dei corpi militari non dovrebbero più essere scelti su nomina politica ma estratti a sorte tra tutti i comandanti regionali.
In questo campo l’apparenza conta quanto la sostanza: il sospetto basta.
e) Obbedienza Geneticamente Modificata (O.G.M.) e insindacabilità dell’ordine.
La combinazione sinergica delle norme sulla disciplina (sanzioni e note premiali) e l’assenza di tutele terze[11] pongono il militare in una tale soggezione, da provocare una mutazione genetica del concetto di obbedienza militare. L’obbedienza, che a mente del legislatore ordinario avrebbe dovuto essere leale e consapevole, di fatto è ancora CIECA e ASSOLUTA.
Il militare al quale è impartito un ordine che non ritiene conforme alle norme in vigore deve farlo presente a chi lo ha impartito dichiarandone le ragioni, ed è tenuto ad eseguirlo se l’ordine è confermato. Inoltre il militare al quale è impartito un ordine la cui esecuzione costituisce manifestamente reato, ha il dovere di non eseguirlo e informare al più presto i superiori (art. 729 del TUROM).
Da notare che la norma non parla di ordine non conforme alle norme in vigore, ma di ordine ritenuto tale da chi è chiamato ad eseguirlo.
Evidenzio inoltre che l’ordine illecito deve essere contestato all’interno dello stesso Ente militare.
Una mutazione genetica dell’obbedienza militare, accecata dal legislatore regolamentare, potrebbe avere ripercussioni sul principio di attinenza al servizio degli ordini e far deragliare i corpi militari dai loro compiti istituzionali.
Anche in questo profilo, mi pare, che il legislatore abbia voluto riconoscere valenza giuridica al fascio di calore rilevato dal flir, prima ancora di vedere gli ingrandimenti.
Nell’ipotesi in cui non dovessero giungere le conferme attese, la norma andrebbe modificata (forse è il caso di dire uniformata alle scoperte di laboratorio) nel senso che l’ordine illegittimo andrebbe contestato dopo essere stato eseguito e quello illecito all’esterno dell’Ente militare, almeno in tempo di pace.
Inoltre fino a quando il militare non verrà posto nella condizione di dire “signornò”, andrebbe ripristinata la scriminante prevista dall’art. 40 del codice penale militare di pace[12], che prevedeva un caso speciale di “adempimento di un dovere”, posto a tutela del militare che avesse eseguito un ordine criminoso. Ciò in quanto se il militare non è posto in condizione (effettiva) di dire signornò deve essere scriminato nel caso esegua un ordine inconfessabile.
Stando le cose così come esposte, mi pare che il militare non sia nelle condizioni di dire “no signore” senza rischiare pesanti ripercussioni in termini di carriera oltre che disciplinari.
Ovviamente, lo schema appena esposto, in caso di guerra, cambierebbe inevitabilmente contenuto, portata e significato.
f) Il segreto investigativo.
Il titolo dell’art. 237 delDPR 90/2010[13] – “Obblighi di polizia giudiziaria e doveri connessi con la dipendenza gerarchica” – parrebbe esprimere un certo bisogno di “accordare” i doveri connessi con la dipendenza gerarchica (dall’esecutivo) e gli obblighi di polizia giudiziaria. Il successivo testo dell’articolo in effetti non chiarisce l’equivoco: “Indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale, i comandi dell’arma dei carabinieri competenti all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, danno notizia alla scala gerarchica della trasmissione, secondo le modalità stabilite con apposite istruzioni del comandante generale dell’Arma dei carabinieri”.
Il vocabolo “segreto” deriva dal verbo “seiungo” ossia, “secerno”, “separo”; rispetto a un dato fatto il segreto separa chi è tenuto a sapere, da tutti gli altri che non devono sapere. E’ di tutta evidenza che le possibilità che un fatto rimanga segreto diminuiscano all’aumentare del numero delle persone che ne vengono a conoscenza[14].
Anche la norma in esame pare basarsi sull’onore del capo. Nel caso il laboratorio non dovesse confermare il presupposto, la polizia giudiziaria che funzionalmente sta al servizio dei magistrati non potrebbe/dovrebbe dare notizia delle informative alla scala gerarchica che è parte del potere esecutivo.
5. IL RISULTATO DELLA PROVA DI LABORATORIO
Esposizione lunga, ma ne è valsa la pena, anche perché nel frattempo i tecnici hanno potuto elaborare gli ingrandimenti richiesti.
Sembrerebbe che l’ente militare in virtù della sua specificità si atteggi come un micro-Stato annidato in seno allo stato democratico.
Se le termografie non dovessero dare i risultati attesi, la specificità sarebbe un ordigno talmente efferato da richiedere urgenti interventi correttivi.
Penso che non convenga a nessuno una specificità che potrebbe essere usata come cavallo di troia dai potenti di turno per dominare senza alcun controllo e magari a costo di influenzare la giustizia e l’accertamento fiscale.
E’ giunto il momento tanto atteso, ora vedremo su quali solide basi poggia la specificità militare.
Finalmente osserveremo la natura e la provenienza del fascio di calore rilevato dal Flir sistem.
CLICCA SULL’IMAGINE PER VISIONARE L’INGRANDIMENTO
Molte sono le domande e i dubbi sollevati, difficili e complesse le risposte, lunga e accurata la trattazione di ciascun tema. La sola cosa che a questo punto posso dire è che sono molto insoddisfatto di come una certa corrente d’opinione, anzi d’interessi, intenda la specificità militare, soprattutto quella della polizia tributaria, e che insoddisfatti mi pare siano la maggioranza degli italiani.
CLETO IAFRATE
Condirettore laboratorio delle idee FICIESSE
Post scriptum: Nella realizzare del presente scritto mi sono ispirato alla delibera n. 1/6/XI approvata dal COBAR del Comando Operativo Aeronavale della Guardia di finanza.
[1] Tutto il personale in forza all’aeronautica, all’esercito e alla marina, oltre agli uomini e alle donne dell’Arma dei carabinieri e del Corpo Guardia di finanza.
[2] L’ art. 148 del d.P.R. n. 3/1957 stabilisce che “Il componente della commissione disciplinare può essere ricusato se vi è un’inimicizia grave tra lui o (addirittura) alcuno dei suoi prossimi congiunti e l’impiegato sottoposto a procedimento, (nientemeno) se alcuno dei prossimi congiunti di lui o della moglie è offeso dall’infrazione disciplinare o ne è l’autore”. Inoltre il D.M. 28 novembre 2000 “Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”, che dedica l’art. 6 all’Obbligo di astensione, sancisce ipotesi tipizzate (con una presunzione iuris et de iure) ed effettua una elencazione, abbastanza completa di casistica, utile ad orientare il comportamento dei membri dei collegi. Così recita l’art. 6: “Il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri ovvero: di suoi parenti entro il quarto grado o conviventi; di individui od organizzazioni con cui egli stesso o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito; di individui od organizzazioni di cui egli sia tutore, curatore, procuratore o agente; di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui egli sia amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza. Sull’astensione decide il dirigente dell’ufficio“.
[3] Le autorità competenti a disporre l’inchiesta sono identificate dagli articoli 1377 e 1378 del D.lgs 66/2010. L’articolo 1377 non pone nessun problema dal punto di vista dell’applicazione in quanto concede al Ministro (o autorità militare da lui delegata) il potere di disporre l’inchiesta formale in capo a qualsiasi militare ed in ogni caso e quindi anche in contrasto con le altre autorità designate dall’articolo 1378. Le norme procedurali attuative inoltre affermano: “Il vigente codice dell’ordinamento militare, come le preesistenti leggi sullo stato giuridico del personale militare, non disciplina espressamente le cause di inopportunità alla nomina ad ufficiale inquirente” (in Norme e procedure disciplinari, 3^ edizione – anno 2011, Guida tecnica emanata dal MINISTERO DELLA DIFESA – Direzione generale per il personale militare – pag. 57).Infine la giurisprudenza sostiene che “un contrasto in servizio tra un superiore ed un inferiore, specie nel rapporto di gerarchia militare, non mette il superiore in condizione dal doversi astenere dal giudicare” (C. di S., Sz. VI, n. 385/1986).
[4] Il vocabolo teologale deriva dal greco ????=dio e ?????=parola. Secondo un’antichissima tradizione religiosa, le virtù teologali non possono essere ottenute con il solo sforzo umano ma sono infuse nell’uomo dalla grazia divina.
[5] E’ prevista dall’art. 1358, comma 4, del Codice dell’ordinamento militare (D.lgs 15 marzo 2010, n. 66) di seguito C.O.M..
[6] Identificati dall’art. 741 del DPR 15 marzo 2010, n. 90 – Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare – di seguito TUROM..
[7] Si consideri che tra i doveri del militare v’è anche quello di “avere cura particolare dell’uniforme e indossarla con decoro” (Art. 720 comma 4 del TUROM); di “astenersi dal compiere azioni e dal pronunciare imprecazioni, parole e discorsi non confacenti alla dignità e al decoro” (art. 732 del TUROM); di “assegnare un posto per ogni oggetto, tenere ogni cosa nel luogo stabilito” (Art. 734 del TUROM). In teoria sarebbe passibile di punizione il militare che non detenga una data cosa nel luogo stabilito ovvero che non abbia prestabilito il luogo presso cui detenerla. Sotto la vigenza del precedente regolamento di disciplina, tra i doveri del militare vi era anche quello “di avere cura nella scelta della propria sposa”.
[8] Al fine di rendere l’idea della vasta discrezionalità, si riportano alcune motivazioni addotte per comminare altrettante sanzioni. Da fonti aperte, si è appreso che un militare è stato punito per avere la “branda in disordine”; altro militare, smontante dal turno di servizio notturno, è stato punito con la sanzione della consegna per avere la “barba incolta”. Un sottufficiale – al quale era stato prescritto dal medico di “astenersi da attività traumatiche di qualsiasi genere” – è stato sanzionato con la consegna “per aver intrattenuto (per sua stessa ammissione) un rapporto sessuale con la propria fidanzata”. Un comandante ha inteso sanzionare disciplinarmente dei militari “per essersi rivolti direttamente presso uno studio legale, piuttosto che avanzare domanda in via gerarchica”.
Un ufficiale, docente in una scuola militare, è stato sanzionato con un giudizio peggiorativo apposto sulla scheda valutativa, addirittura, “per aver adottato, in sede d’insegnamento di materie giuridiche, linee interpretative che pur incardinate su elaborazioni giurisprudenziali, si sarebbero discostate dalle procedure invalse alla Difesa” (TAR Lazio, Sez. Latina, sent. n. 1915/2010).
[9] ANSA del 5giugno 2007.
[10] La SIP è stata introdotta dall’art. 5 della legge 01/04/1981, n.121, a favore del Capo della Polizia ed estesa dall’art.11-bis del D.L. 21/09/1987, n.387, convertito, con modificazioni, nella legge 20/11/1987, n.472, anche al Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri e al Comandante Generale della Guardia di Finanza.
[11] Gli organismi di rappresentanza sono gerarchizzati (il presidente che dà e toglie la parola è sempre il più alto in grado), inoltre sono privi di personalità giuridica e possono solo formulari pareri o proposte al comandante cui sono affiancati. Inoltre anche i delegati sono soggetti alla disciplina militare che, come noto, è svincolata dal principio di legalità.
[12] In seguito alla legge di Principio 382/78 il reato è sopravvissuto, ma la scriminante è stata radicalmente abrogata (art. 22 L. 382/78).
[13] Si tenga presente che si tratta di un atto formalmente presidenziale, ma sostanzialmente governativo: la norma è stata solo riordinata all’interno del DPR 90/2010, la sua datazione è anteriore alla legge 400/1988 sull’Ordinamento del Governo.
[14] Per un approfondimento su questo punto, cfr. “Ventennale della morte del giudice Falcone: uno studio per onorarne la memoria” di Cleto Iafrate, pubblicazione online.