SCANNAR PECORE – terza parte
14 Giugno 2010Siamo giunti alla parte conclusiva.
Nella prima, abbiamo verificato che la condizione bracciantile è peggiorata e abbiamo imputato il peggioramento a due fattori: la scomparsa della piccola e media azienda agricola e l’avvento, dovuto a tale scomparsa, di un caporalato che di fatto detiene il monopolio del collocamento lavorativo dei braccianti.
Nella seconda, abbiamo ricostruito come un sistema, che apparentemente soddisfaceva tutti, abbia provocato l’arricchimento di alcuni (sindacati e organizzazioni di categoria), gettato sul lastrico altri (gli agricoltori) e ridotto alla schiavitù i braccianti.
A questo punto qualcuno si chiederà: e lo Stato?
Lo Stato era non solo al corrente di tutto, il Prefetto d’altronde non è altro che un suo rappresentante governativo, ma incoraggiava addirittura le pratiche dissennate che abbiamo osservato.
Quelle pratiche, dal punto di vista dello Stato, sono da leggere come un surrogato della mancata industrializzazione del Sud, dove per ovvie ragioni l’agricoltura è più diffusa che nel resto del Paese, e della pubblica beneficenza che avrebbe dovuto assistere i senza lavoro.
Favorendo quelle pratiche, lo Stato si riteneva assolto dai fallimenti ottenuti in materia di industrializzazione e scaricava il costo dell’assistenzialismo sui datori di lavoro agricolo.
Almeno questo è quello che sperava si realizzasse.
Questo gioco perverso ha effettivamente retto per qualche tempo.
Fino a quando cioè i datori di lavoro agricolo non hanno scoperto che il costo del gioco era divenuto per loro insostenibile.
Negli stessi anni in cui le socialdemocrazie europee cominciavano a mandare a puttane un Welfare che si era rivelato proibitivo nei costi, ricordiamoci che stiamo parlando degli anni Ottanta, in Italia c’era chi pretendeva che ad accollarsene il costo fosse per intero un settore economico (quello agricolo) che cominciava a perdere colpi.
Oggi a qualcuno viene facile, perché gli torna utile, imputare alla globalizzazione dei mercati tutti i mali di questo mondo.
Dimentica, però, che le uniche aziende agricole che sono sopravvissute al disastro che si stava preparando, sono quelle che hanno cominciato per prime ad eludere la contribuzione previdenziale. Di tutte quelle che hanno cominciato dopo e non facendosi furbe, non occultando cioè al fisco i propri cespiti, ora sopravvive solo il “credito” che l’Inps dice di vantare nei loro confronti.
Riassumendo la dinamica dei fatti si ottiene questo: lo Stato (favorito da sindacati ed organizzazioni, che si fanno pagare ancora lautamente il favore) scaricava i costi per lui non sostenibili sulle aziende agricole; di queste sono sopravvissute soltanto quelle che si sono fatte furbe (rendendosi non rintracciabili dal fisco e dagli ispettori del lavoro); le aziende “in regola” sono collassate (da una parte per via dei costi insostenibili a loro imputati, dall’altra perché subivano la concorrenza di chi si era fatto furbo); i braccianti conservano ancora qualche vantaggio (le indennità di malattia e di disoccupazione), ma al costo della perdita di ogni altro diritto (a cominciare da quello all’autodifesa sindacale reale).
E’ una storia di pecore e di lupi.
Alcune pecore (le aziende poco furbe) sono state macellate, altre (i braccianti) vengono tenute in vita ma solo perché le si può sfruttare ancora.
I lupi, per non apparire tali, si sono divisi i ruoli e recitano la commedia: vi sono i lupi “buoni” (quelli che “difendono i poveri lavoratori sfruttati” e “denunciano l’evasione contributiva”) e quelli “cattivi” che, per non sembrare eccessivamente cattivi, quando è necessario, scaricano ogni responsabilità su altri lupi ancora più cattivi (che se non ci fossero bisognerebbe inventare): i “caporali”.
Mimmo Forleo